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Arriviamo a Campagna mentre comincia lentamente a nevicare: fiocchi leggeri, che scompaiono appena toccano terra. Dopo la breve nevicata arriva il vento, folate gelide e taglienti che ci costringono a salire velocemente i pochi gradini che ci separano dall’ingresso. L’aria si fa ancora più fredda all’interno del chiostro dell’ex Convento Domenicano di San Bartolomeo, trasformato nel corso degli anni prima in caserma e poi centro di internamento per civili ebrei durante la seconda guerra mondiale, oggi divenuto Museo della Memoria e della Pace, dedicato alla memoria di Giovanni Palatucci, allora commissario di pubblica sicurezza a fiume e che tanti ebrei riuscì a salvare dalla follia nazista.

Mentre Michele, il nostro accompagnatore, incomincia a raccontarne la storia, centinaia di volti si affacciano dalle tante foto e dai video che ci accompagnano in questo intenso percorso emozionale, desiderosi di far conoscere le loro esperienze, di raccontare della guerra, dell’internamento, delle loro vite prese in ostaggio; esperienze riportate alla memoria da recenti esperienze editoriali come i libri “Racconti che sopravvivono” di Eirene Campagna

e “It happened in Italy” di Elizabeth Bettina.

Attraversiamo, passo dopo passo. I lunghi corridoi, leggiamo le lettere dei deportati, colmi di speranza, il carteggio intercorso fra Giovanni Palatucci e la Santa Sede per cercare di salvare più vite possibili, incrociamo sguardi, scene di vita quotidiana, ambienti fedelmente ricostruiti, come la sinagoga

o gli alloggi per i prigionieri,

ma la foto che maggiormente mi colpisce è una grande foto di gruppo, dove con la stessa dignità posano sia gli stessi prigionieri che i loro carcerieri, ma in quella foto, oltre quegli sguardi, non riesco a leggere l’orrore della guerra, né la paura o la cattiveria: sembra quasi la foto di una vecchia scolaresca in gita. I carcerieri di Campagna non erano aguzzini e i prigionieri non erano visti come “diversi”, come razza inferiore da eliminare, erano semplicemente persone, spesso professori, medici, musicisti, a cui potersi persino rivolgere in caso di bisogno. Ecco perché il Museo della Memoria di Campagna è soprattutto museo della pace.

Con ancora l’eco di queste riflessioni a fare da cornice, mi soffermo a guardare dalla finestra che si affaccia sulle pendici della montagna, attraverso cui gli ultimi prigionieri rimasti trovarono una via di fuga, dopo essere stati avvisati dai loro stessi carcerieri dell’imminente arrivo delle milizie naziste, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943: posso sentire la loro disperazione, la speranza della salvezza, il freddo, la fame, la paura…

Ma questo museo ci racconta anche storie di pace, di come le ostilità e le differenze possano essere superate grazie alla solidarietà e alla consapevolezza di riconoscersi semplicemente esseri umani, come la storia del medico ebreo Max Tanzer, che abbandonò il sicuro rifugio sulla montagna, rischiando di essere nuovamente fatto prigioniero, per prestare soccorso alle centinaia di civili italiani rimasti feriti sotto le bombe alleate del 17 settembre 1943.

Storie di persone normali, pronte a rispondere al richiamo del loro dovere morale ed etico. Non è necessario essere eroi per compiere gesti indimenticabili, basta ricordarsi di essere uomini.

Ornella Cauteruccio