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A volte ti ritrovi a intraprendere un viaggio senza sapere realmente a quale destinazione arriverai. Per un intreccio di coincidenze, passaparola e suggerimenti, vieni catapulta in un’esperienza che, ancora non sai, ti cambierà la vita. È proprio a seguito di un suggerimento che è iniziata la mia “mission”.

“Benvenuta tra noi Simona, la camera è pronta, può depositare i bagagli. Il maestro l’aspetta in laboratorio fra un quarto d’ora”. Dopo l’incessante invito da parte del volontario alla reception che voleva prendessi quell’affare d’acciaio per salire il piano e dopo essersi finalmente rassegnato davanti al mio irremovibile “anche no grazie”, sono riuscita a portare i duemila chilogrammi di trolley nella stanza affidatami. Cosa caspita avevo infilato in valigia perché pesasse così tanto, ancora non lo afferravo. Immagina se mi avessero spedito al terzo piano dello stabile. Di certo il bolide di ferro non lo avrei preso comunque. Il volontario sarebbe stato costretto ad armarsi di pazienza e muscoli e mi avrebbe dovuto aiutare a compiere l’impresa titanica, portando quella specie di transatlantico che avevo come valigia. Finalmente. Porta numero 1, la mia. “Meravigliosi questi due centimetri quadri di camera! Senza dubbio una vera cella monastica”. Semplice, funzionale. E piccola. Molto piccola. Ma accogliente. Poche cose, l’essenziale. E una finestra sul lago. Albe e tramonti indimenticabili mi accompagneranno per tutta la permanenza del corso.

Attraverso il cortile e un profumo di limoni e di preghiera mi trasporta in un’altra dimensione. L’azzurro del cielo che da mesi non riuscivo a scorgere, mi ferma il cuore. È tra le nuvole bianche, soffici come lo zucchero filato che ti scorgo. Mi sorridi. Credevo di averti lasciata a casa ad aspettarmi e invece, mi hai preceduta. Ovunque io sia, tu sei. Questo siamo noi.

Il laboratorio è al secondo piano dell’abbazia. Il maestro e gli altri allievi mi stavano aspettando. Sorrido al popolo e scelgo un posto (solo a metà corso realizzerò d’aver privilegiato l’unico banco all’ombra). Lo sguardo sfugge libero nella stanza. Sembriamo tutti scolaretti al primo giorno di scuola: postura eretta, mani e braccia conserte sui banchi, espressione curiosa da ebeti, ginocchia unite, merendina nello zaino, quadernetto e kit di sopravvivenza per gli appunti. La fase “embrionale” di ogni partenza, nasconde quell’innocente inconsapevolezza del lungo ed estenuante percorso che ne seguirà. Piccoli d’uomo che ancora non sanno quanto dolore proveranno quei loro poveri piedini, mentre tenteranno di camminare sugli spigoli della vita, fra una sosta pianeggiante e una dipartita in salita. Incredibile come si possa ritornare bambini e quanto sia diverso per quei bambini, viversi da adulti. Un rumore mi riporta al presente. Ci viene consegnata la tavola sulla quale andremo a “scrivere” l’icona e la fotocopia del Cristo Pancrator che realizzeremo.

Ci siamo. Tengo fra le mani questa immagine e subito mi avvolge una sensazione di “ritorno”, di ritrovo. Lo sguardo del Cristo che da fotocopia si trasformerà in dipinto, mi guarda con dolcezza, quasi a dirmi “ti stavo aspettando, quanto ci hai messo?!”. Ancora non conosco la tecnica e le fasi che ci permetteranno di trasformare quello spazio bianco, in vita, ma sento che in quella tavola di legno, troverò il senso di questo viaggio.

Le fasi sono molte, alcune delle quali per giunta complesse. Un dentista violoncellista e un architetto di giardini pensili, una ragazza che parla da sola più di quanto non riesca a fare io e con la quale legherò fin da subito, un pittore occasionale che dipinge solo d’estate (e ancora ci sfugge la ragione), una signora attivista del “fai da te” che ci attrezzerà con oggetti creati con le proprie mani e un’altra signora, composta e solidale che mi aiuterà a capire come tenere il pennello, saranno i miei compagni di pellegrinaggio. Full immersion di teoria e pratica sull’iconografia, in uno scenario da fiaba, preghiera e silenzio, meditazione e ricerca di sé. Ne uscirò vinta e vittoriosa.

“Scrivere un’icona, è trasferire quello che si ha dentro, sulla tavola. Ogni immagine dipinta pertanto, sarà diversa e particolare. Chi arriva a frequentare un corso di iconografia, non ci arriva per caso. È una chiamata. E in questa chiamata, troverete il senso che state cercando. C’è sempre un motivo”. Ancora non potevo comprendere il significato di quelle parole, difficile carpirne il disegno ma, strada facendo, fatica dopo fatica, lo avrei afferrato. Il senso e tutto il suo splendore.

Il primo giorno, dopo aver trasferito l’immagine del Cristo sulla tavola, apportando delle modifiche all’aureola perché potesse rispettare le giuste proporzioni, abbiamo scoperto l’uso della tempera all’uovo. Se mi avessero predetto che superati gli anta, mi sarei divertita a fare il bagnetto al tuorlo dell’uovo, probabilmente avrei sghignazzato per una settimana. Beh, che dire, gli anta li ho superati e il bagnetto al tuorlo, è stata la terapia antidepressiva più efficace che abbia potuto sperimentare e conoscere.

Creata l’emulsione all’uovo, mischiata ai minerali e stabilito il colore, non restava che armarsi di pennello e ripassare la grafia del Cristo. E lì, sono iniziati i primi problemi. Se tenere il pennello in mano perfettamente diritto e appoggiare il braccio al supporto, pareva difficile, cercare di non tremare, divenne un’impresa eroica. Avevo iniziato a ripassare solo i lineamenti dei capelli al mio povero Gesù e già, ero riuscita a conferirgli un aspetto rock. Ma niente panico, con qualche goccia di acqua e un po’ di delicatezza, potevo rimediare cancellando le sbavature. Delitto! Le poche gocce d’acqua si trasformarono in un fiume e la delicatezza in infida scioltezza. Risultato: mezza capigliatura scomparsa! Ora più che assomigliare al cantante rock dei Rolling Stones, aveva sembianze da malato terminale. Fortunatamente l’intervento riparatore del maestro, ha ridato dignità al mio Cristo. Seppure quel lato rock, non mi dispiacesse.

E’ andata meglio con la fase campitura, quando abbiamo ricoperto di colore ogni singola zona del dipinto. Mentre con l’ombreggiatura, sono stata veramente un fenomeno. Questa mia dote non la conoscevo. Una vera maga delle ombre. Nelle mie riflessioni serali, ho dedotto che questa mia indole potesse venire da dentro. Non ho mai amato i riflettori e anche se sono socievole di natura, forse a volte troppo, mi ritengo solitaria e amante degli spazi: i miei. Me ne sto volentieri all’ombra, assaporando il silenzio intorno a me. Anche al mare non amo stare troppo al sole. L’ombra mi ha sempre trasmesso una sensazione di protezione, di pace, di ascolto. Forse questa propensione positiva al suo esistere, mi ha permesso di saperla “dosare” nell’icona.

Non posso invece affermare d’essere stata un genio Leonardiano (si può dire?) durante la fase dello schiarimento. Tutt’altro. Sfumare i colori, donando luce al volto, mi ha fatto entrare in crisi. Ho perfino mollato pennelli e grembiule sul tavolo, uscendo dall’aula, infuriata con me stessa. Per tutta la serata mi sono rinchiusa dentro quelle solite mura domestiche che porto nel cuore, abbarbicata attorno a convinzioni assurde, certa d’essere alterata con me stessa e con il mondo solo perché, in quel frangente della mia carriera iconografica, non ero riuscita a diventare il Van Gogh della situazione. In fondo però, emergeva una reazione cognitiva del tutto diversa dal motivo reale della mia crisi esistenziale. Se avevo reagito in quella maniera, la ragione era un’altra, veniva da lontano e me la trascinavo da tempo. Ho sempre preteso troppo da me stessa, in ogni contesto e in ogni luogo. Ero continuamente assorbita dal sentirmi all’altezza della situazione, in perenne confronto con il resto della popolazione esistente, specie quella femminile e mi allenavo a superare i gradini mentali che di volta in volta, il mio “personal brain trainer” mi imponeva, pronta a valicare in toto qualsiasi circostanza. In poche parole, non mi volevo bene. Questo lo scenario. Rendersene finalmente conto, mi è costata fatica e sofferenza. La crisi esistenziale che stavo vivendo, mi riportava un motivo discorde dal non essermi incarnata in Van Gogh o Leonardo. Quello che stavo attraversando comunicava un senso diverso. Più profondo. E nella mia riflessione, ho pensato a te mamma. Da quando hai deciso di abbandonare le reti in mare per dedicarti agli spazi aperti, mi sono persa. Non che prima conoscessi alla perfezione la mia rotta, ma c’eri tu per lo meno a rimettermi in carreggiata. Senza di te, anche il solo capirmi, è diventata un’enorme utopia. Se in quel frangente della giornata, potevo trasferire qualcosa di mio sull’icona, era proprio questo. E ci soffrivo. In quel luogo lontano, dimenticato da tutti, sola con i miei delitti mentali, mi sono arresa. Il silenzio come guida e la brezza della sera come carezza, il riflesso del sole nelle acque del lago e il volto di una Madonnina di pietra accanto alla panchina dove mi mettevo, sono stati il mio ritorno alla vita. Il mio battesimo consapevole. “C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli…”così recita l’ecclesiaste nella Bibbia. Quello era il tempo per me. Per i primi passi verso casa. Dovevo scegliere: o fare della crisi la mia continua rotta di navigazione oppure, attraversarla vivendola fino in fondo, dandole senso e nuova destinazione. Il corso d’iconografia, mi stava insegnando l’arte dell’infinita pazienza. Non verso gli obiettivi che ci imponiamo e che vorremmo realizzare subito ma, verso l’unica meta che dovremmo raggiungere: noi stessi. Pazienza di aspettarci. Di realizzarci. Di crederci. Pazienza di superare le notti buie, lasciando che queste ci vivano, dando loro un significato. Un nome. Attraversarle per capirle e non per odiarle.

“Non mollo. Si è vero, ho avuto una crisi e sono in crisi, ma non mollo. Non diventerò Van Gogh in otto giorni ma ci voglio credere. E continuare questo viaggio. Voglio trasmettere alla mia icona, anche quello che ho di brutto perché possa aiutarmi a cambiargli luce”. Dissi al maestro, il mattino seguente.

Come se già lo avvertisse, con un sorriso mi rispose: “Siediti, all’ombra del tuo volto e continua la ricerca.”

E così sono arrivata a completare la mia opera. Le mie sette fatiche d’Ercole.

L’ultimo giorno, prima della benedizione di tutte le icone in chiesa e ancor prima di salire a cambiarmi, ho alzato il telo, con le mani ho preso delicatamente la tavola e l’ho guardata. Siamo rimasti a fissarci per un po’. Il mio sguardo nel suo immenso, in silenzio e sempre all’ombra. Ammiravo il volto del Cristo come se lo avessi visto per la prima volta. Lui abbracciato ai miei limiti, io al suo amore.

Non sono diventata Van Gogh ma ho cambiato la luce. E la vita.

Simona Guarino