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“Non resisto dottore, non resisto, ho un dolore terribile”

– “le faccio fare una fiala di Toradol, poi ci vuole qualche radiografia, se va tutto bene oggi la mando a casa, vedrà che riuscirà a riposare. Si accomodi lì”.

 

Il medico è gentile ma questo ospedale è un lager, pareti grigie  e ingiallite a mezza altezza, impronte di scarpe nella parte bassa, il pavimento chiaro con macchie sparse che segnalano un’igiene scadente. Ma che ci faccio io qui?

Dio che male, oggi potrei morire di dolore e non è solo quello fisico ad uccidermi.

Fisso un ragno che traffica dietro la spalliera della sedia, ma quando arriva il dottore…devo pensare ad altro, devo sforzarmi di pensare ad altro.

 

Ecco, il male mi stordisce, lo rivedo….

 

Il suo sguardo rapido e tagliente mi attraversò l’animo, il corpo agile e scattante, sfiorò il mio abito leggero e lo zaino mi scivolò giù dalla spalla.

“Posso aiutarla?” mi disse.

 

Io e Edi ci eravamo incontrati così, per caso, all’aeroporto di Linate. Edi andava a Roma per un congresso, io a Roma dai miei, per trascorrere un breve periodo di ferie.

Ero frastornata in aeroporto, presa dai miei pensieri, dalla voglia di casa, dove posso sentire ancora il calore della famiglia, giocare con i miei cani.

E’ bellissimo tornare dopo mesi e vedere Margot e Black correrti incontro, neppure un istante di esitazione, annusano l’aria e sono certi che sei proprio tu, l’altro pezzetto della famiglia che un po’ va e un po’ viene.

Mi sento “figliuol prodigo” quando arrivo,  “Giuda” quando parto.

E poi ricomincio da capo, conto i giorni per fuggire dalla solitudine assordante del mio appartamento milanese, dalle mie giornate così convulse, piene di impegni, decine di incontri fatti di nulla.

Edi mi aveva distolto dalle mie malinconie confondendomi con il suo fascino.

Era bellissimo, l’incarnato scuro, il fisico atletico, capelli e occhi nerissimi.

Ci ritrovammo sull’ aereo nella stessa fila, lui lato finestrino, io lato corridoio, con una poltroncina vuota nel mezzo.

Iniziammo a parlare del tempo, poi del viaggio, poi di noi.

Lui era tunisino, era in Italia da sei anni, ma prima ancora era stato in Francia e in Spagna. Edi parlava correttamente cinque lingue.

Lo guardavo incantata, ero sola da troppo tempo per non prestare attenzione a quello sconosciuto.

Aveva modi gentili, un italiano un po’ confuso tra il verbo essere e il verbo avere, uno sguardo profondo e dolcissimo.

– “Avevo 17 anni quando chiesi a mio padre di farmi fare un viaggio in Europa, volevo andare qualche giorno a Parigi, Parigi c’est fantastique! Ci sono rimasto due anni procurandomi un lavoretto in un bistrot”.

Continuava il suo racconto con scioltezza, come se mi conoscesse da una vita, poi Madrid, Ana la sua ragazza spagnola, poi la voglia di studiare, di ritornare a Parigi.

I sacrifici da studente, il letto nel retrobottega di una “brasserie”, dove lavorava la sera, con i mobili fatti di cartone e i vestiti impregnati di fritto, finalmente la laurea alla Sorbona.

– “Manca qualche minuto all’atterraggio”, dissi con apprensione, pensando che di lì a poco ci saremmo salutati e persi per sempre.

– “Potremmo prendere un caffé insieme a Milano, quando torni!” Disse, sorridendomi timidamente.

Ci scambiammo i numeri di telefono, lui chiamò un tassì, io corsi ad abbracciare i miei che erano venuti ad accogliermi.

A casa Black e Margot mi vennero incontro come sempre, strofinando il muso sui miei pantaloni chiari.

Edi mi telefonò  qualche giorno dopo, ci ritrovammo a Milano, non solo per il caffè.

Nel giro di tre mesi eravamo andati a vivere insieme, una vena di follia si era impadronita di noi, io vivevo per lui e lui per me.

Ai miei genitori non avevo detto ancora nulla, Edi era musulmano e la faccenda mi inquietava un po’, anche perché nella vita di tutti i giorni la differenza culturale si faceva sentire.

Quando Edi si raccoglieva in preghiera io mi allontanavo, lo guardavo con rispetto, ma anche con preoccupazione.

Che sarebbe stato di noi? Quando si toccava questo argomento, Edi diventava serio e diceva: ”Voglio sposarti, devi convertirti”.

All’inizio pensavo scherzasse, non mi pareva una questione così rilevante nel nostro rapporto, in fondo ci amavamo ed eravamo felici.

Il suo rigore da musulmano integralista, le cinque preghiere al giorno, l’astinenza dagli alcolici, il digiuno totale i giorni del Ramadan, le sue critiche aspre per i vestiti di mia cugina, tutto ciò non sarebbe stato per nulla gradito ai miei.

In famiglia oltretutto, da parte di mia madre c’erano un paio di zie in clausura dell’ordine delle benedettine, mentre un fratello di papà era vescovo a Ravenna, era impossibile pensare di cambiare religione e poi io non lo volevo affatto.

Una sera Edi tornò di malumore, era deceduto un paziente nel suo reparto, dove svolgeva un incarico da precario, si sentiva colpevole, si chiedeva se avesse potuto fare di più per salvarlo.

– “Sbrigati, voglio che tu faccia una doccia, ho voglia di fare l’amore”.

Era già un po’ che Edi pretendeva il sesso come prezzo da pagare, mi afferrava spesso con forza, io mi fidavo, poi diventava dolcissimo.

Quella sera non osai replicare, mi amava, non avrebbe potuto farmi del male.

Il giorno dopo mi offrì una rosa.

 

Mi risveglia il dolore…, sono qui, tra le pareti grigie di un Pronto Soccorso, spaesata e dolorante.

Devo tenere immobili avambraccio e polso, sono gonfi e violacei per le ecchimosi,  dove sarà finito il dottore? Vorrei andarmene, ho un male terribile, cosa faccio?

Chiamerò i miei, dirò di venirmi a prendere, dirò che sono scivolata giù dalle scale, andrò a passare un periodo a casa, qui adesso ho paura.

 

-“Signora, venga le faccio l’antidolorifico, poi le rilascio il referto e potrà andare.”

 

“Grazie dottore, posso leggere?”,

mi passa un modulo prestampato completato a biro e leggo: “Aggressione da parte di persona nota – frattura scomposta dell’avambraccio destro, ridotta la diastasi del radio, ematomi diffusi agli arti inferiori-”.

 

Le lacrime mi bagnano il viso, non riesco più ad alzare la testa, ora vorrei cancellare Edi dalla mia vita, vorrei non averlo mai incontrato.

 

Il medico si avvicina, mi accarezza la mano dolorante e sporca di gesso, “Le consiglio di passare dal commissariato signora!”.

 

Alzo gli occhi, il dottore mi fissa, è un’esortazione la sua che non so ancora se raccoglierò.

 

Prendo la borsa con l’unica mano utile, ringrazio e saluto.

Fuori da quel tugurio c’è un’aria fine, profumo di primavera, il cielo stellato.

Mi fermo ancora un attimo su una panchina, il gesso pesa sono stanca, confusa, ma ho deciso.

Chiamo i miei, farò una convalescenza con loro, in compagnia di Margot e Black, il solo pensiero mi curva le labbra verso un sorriso.

Papà sarà qui in un paio d’ore, ho giusto il tempo per quella tappa cui alludeva il medico per iniziare a recuperare il rispetto di me stessa.

Domani mi guarderò allo specchio e sarò un’altra.

Enrica Suprani