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Ogni anno, fra decine di argomenti tutti diversi (365 pagine non si riempiono facilmente) inserisco nell’Agenda d’arte Noitrè un argomento “da libro di testo”, tipo la storia dei neri d’America o i dittatori più crudeli di tutti i tempi.​

In quella per il 2020, la 14esima, argomenti “storici”  sono Ataturk, il padre della Turchia, e la battaglia di Lepanto nel 1571. Abbastanza intuibile la ragione di tale scelta.​
Comunque, oltre rapide paginette che presentano curiosità storiche, c’è anche una rubrica di osservazioni di costume. Mille anni è il tempo che sembra intercorrere tra i miei anni adolescenziali e la nostra attualità.​
Mille anni fa… ​
Quando ero ragazzina, poi una giovane donna (o meglio, una giovinetta una fanciulla, poi signorina, giusto per calarci nell’atmosfera) vigevano delle regole di comportamento non scritte ma rigidissime, proprio come oggi, del resto.​
Parliamone.​
Spesso con forti accenti di nostalgia si mostrano foto di scugnizzetti che giocano giochi semplici, elementari, bambinette che saltellano sull’eterna campana, vecchiette che o portano pesanti carichi di fascine o spettegolano dinnanzi casa; sono immagini interessanti e simpatiche, ma illustrano solo una fascia sociale. ​

A me piace ricordare i buffi rigidi diktat che regolavano la quotidianità borghese, elencandone alcuni che descrivono l’ambiente meglio di pensosi saggi lunghi e noiosi.

 

 

                             

Oggi qualcuno intelligentemente incita i babbi e soprattutto le mamme a spingere le ragazze a studiare molto per trovarsi un lavoro con il quale mantenersi, ed i ragazzi ad imparare le faccende domestiche e a cucinare. ​

Questo perché, nella ricerca di un compagno di vita, i maschi non mirino ad una cameriera e le ragazze non puntino ad un bancomat. ​
Sottoscrivo, pur se da bambina, mille anni fa, sono stata educata al concetto della netta divisione dei ruoli: ​
– Noi fanciulle, in un tripudio di tendine di pizzo alle finestre e soporifere ninne nanne al pupo, saremmo state mantenute dal marito vita natural durante. ​
– Lui, il Maschio (notare la maiuscola rispettosa) avrebbe avuto camicie stirate con il colletto inamidato a vita, pranzetti succulenti, bimbi belli che non gli avrebbero rotto l’anima, e nei pranzoni natalizi gli avrebbero nascosto una letterina mielosa sotto il piatto. ​
Il patto era equo…più o meno. ​
Nessuno ci raccontava che ​
-il pater familias, stanco delle scipitezze coniugali, avrebbe partecipato entusiasticamente a quelli che oggi vengon denominati puttan-tours. ​

– la Madre (notate ancora la maiuscola) avrebbe sognato per tutta la vita rose rosse un po’ sfiorite, sfogliando le pagine dei “femminili” mentre il ragù bolliva bolliva, pipiando… ​

 

 

                             

Ovviamente rigidissime le regole del bon ton nel vestire: ​
Le gonne, tutte, eccetto quelle da gran sera, dovevano arrivare a metà ginocchio. ​
Da tale importante comandamento erano esentate le lucciole (o donnine allegre o, per i più colti, femmes de vie); ma quelle erano un mondo a parte della cui esistenza venivano informati entusiasti ragazzotti brufolosi e pudibonde fanciulle che manco avrebbero capito abbastanza. ​
Le gonne – dicevamo – arrivavano a metà ginocchio, per fanciulle (o giovinette che dir si voglia), signorine e per signore di qualsiasi età. ​
La lunghezza totale dell’abito, quella che permetteva alle scarpe di far appena capolino fra l’ondeggiare delle pieghe, era per gli abiti da gran sera e per quelli neri e tristi delle suore. ​
Immaginate quando nel ‘68 arrivarono Carnaby street, gli spinelli, i Beatles, e soprattutto Mary Quant! ​
Di fronte all’invasione della minigonna la Chiesa era in stato comatoso, le signore boccheggiavano, le ragazze esultavano, pur se il concetto che veniva ripetuto ad ogni pie’ sospinto diceva che se un uomo, un MASCHIO, si trovava di fronte una tizia con le gambe scoperte dall’inguine in giù, aveva tutto il diritto di saltarle addosso e farla sua (espressione delicata…). ​

Noi giovani donne per bene arrivammo all’audacia di esibire tutto il ginocchio, mai più su. Non era un granché perché, a dire il vero, quella pallottola cicciotta non era manco un poco invitante. ​

 

 

                                

In quanto alle calzature, la signora portava “il mezzo tacco”, con la punta arrotondata. ​
Solo le più alte e snelle sfoggiavano comode inglesine rasoterra; ma senza palestre – ne parliamo fra un momento – eravamo per lo più di coscia corta e cellulitica e perciò schiave del tacco a spillo. ​
Appena le mamme e soprattutto i babbi lo consentivano, per le passeggiate e le occasioni mondane noi signorine ci fiondavamo sui tacchi a spillo; generalmente erano di legno, scomodissimi, sottili, e si spezzavano facilmente; furono perciò sostituiti dai tacchi di acciaio, altrettanto alti, sottili e, se possibile, ancor più scomodi. ​
Va detto che così la scarpa era un vero corpo contundente, un’arma impropria, in quanto la pianta era stretta e terminava con una punta acuminata che, secondo le intenzioni del calzolaio matto che le aveva inventate, doveva ospitare l’alluce. ​
Pensate alla grazia nell’incedere di una liceale cicciottina che, dopo aver passato la settimana fra greco e latino, voleva sentirsi carina caracollando per il corso sui tacchi a spillo. Cerotti di ogni forma e dimensione erano del tutto inutili a proteggere da bolle e piccole dolorose ferite. ​

Io personalmente ricordavo la madre di Dumbo, nella levità della camminata e nell’espressione fortemente sofferente che si faceva più intensa ad ogni pie’ sospinto.

 

 

                                  

Sapete che mille anni, fa quando ero una giovinetta (lessico materno) non si andava in palestra? ​
Quando si nominava la tartaruga ci si riferiva invariabilmente ad “Achille e la tartaruga”, ossia ad un’idea filosofica di Zenone di Elea che sosteneva che il movimento è un’illusione. Oggi diciamo tartaruga e pensiamo al torace scolpito di un fusto. ​
Apro una parentesi: dovrei fare uno studio articolato sull’evolversi del vocabolario: Chi dice più “fusto”? Solo noi vecchietti. Oggi dovrei dire bonazzo, penso. ​
Chiusura di parentesi. ​
A noi fanciulle si diceva che andando in palestra avremmo sviluppato dei muscolacci, perdendo le nostre morbide curve femminee. E si sconsigliava persino la danza classica che ci avrebbe inturgidito sgradevolmente i polpacci. ​
Io ci credevo, perché nella mia classe al liceo, e forse in tutto il corso B, c’era una sola ragazza che frequentava danza classica, Silvana. Silvana stringeva forte in vita il grembiule con una cintura alta e sembrava sempre indossare un tutù. Laddove io caracollavo pesantemente verso la cattedra, lei si librava eterea. Eppure tutte noi le guardavamo i polpacci effettivamente muscolosi, e non apprezzavamo per niente come poneva i piedi. ​
I tempi cambiano ed oggi è normale vedere anche noi vecchiette in tuta avviarci in palestra con il borsone d’ordinanza per il corso di pilates e ginnastica posturale. ​

Questo ricordo è una delle ragioni per cui non mi entusiasmo per certe imposizioni che per un po’ ci vengono presentate come importanti ed il mese o l’anno seguente ci si dice che, no, abbiamo equivocato; e così una panacea, l’anno seguente si scopre cancerogena.​

 

 

Anche ieri, come oggi, le aspiranti dive avevano bisogno di un book fotografico che evidenziasse le loro grazie e la loro fotogenia. Diversa comunque l’impostazione: ​
-Ieri i primi piani puntavano su: ​
1) sguardi vogliosi ma non troppo ​
2) riccioli d’oro con un’onda serica a coprire un occhio (Veronica Lake docebat);​
 3) boccuccia generalmente atteggiata a cuoricino ​
Le foto a figura intera mostravano l’aspirante star languidamente avvolta in una pelliccia prestata dal fotografo, che si apriva maliziosa a mostrare mezza gamba, dal ginocchio in giù; ​
oppure in abito da sera strizzatissimo in vita con décolleté fiorente bene in vista (sapete, per l’eleganza…) ​
Oggi i primi piani puntano quasi tutti sul lato B con spaghetto colorato che si tuffa fra marmorei glutei sporgenti;  o sulla bocca molto vogliosa  tutta sporta in fuori con labbroni semiaperti, mentre lo sguardo chiede: “Embè che aspetti?” ​
 Bandite le pellicce, ufficialmente per ragioni ecologiste (non è vero!), si punta al risparmio: l’abito lungo è sì lungo, ma in compenso è stretto stretto e non si allaccia né davanti né dietro, scoprendo tatuaggi in posti generalmente non visibilissimi.​
Il vero capo di vestiario è un foulard che l’aspirante star trattiene in alto perché il vento non lo porti via, torcendosi tutta in pose complicatissime che mostrino  contemporaneamente il lato B, rotonde protuberanze donate da un buon chirurgo plastico e persino un pezzetto di occhio più o meno conturbante. ​
Questa, consentitemi, è la prova del nove per la starlette che dopo tre quarti d’ora in quella posa si stravacca su un divano lamentandosi con un ahi ahi infinito. ​

Se si raddrizzerà, avrà una buona carriera. ​

 

 

                               

Mi rendo conto di aver parlato sì di riti e costumi della quotidianità borghese di tantissimi anni fa, ma solo al femminile. ​
Rimedio: ​
Ci credete se vi dico che i ragazzi avevano il loro “vestito” – quello con giacca pantaloni e panciotto – a 18 anni, e che “il” vestito, generalmente blu scuro, veniva confezionato su misura dal “sarto buono” della città ( Salerno, nei miei ricordi).​
Anche a casa mia si rispettarono le consuetudini e ricordo che a mamma vennero i lucciconi quando, dopo svariate prove, mio fratello Tonio, allora snello e scattante, si esibì con “il vestito”. ​
So che dopo un po’ di tempo (anni?) il vestito veniva rivoltato e si poneva il problema del taschino che da destra passava a sinistra…o il contrario, ma onestamente non so bene; lo dico solo per sottolinearne l’importanza. ​
Invece ricordo bene che i giovani liceali, per lo meno per un po’ d’anni, portavano i pantaloni alla zuava. Ridicolissimi! Erano larghi ed arrivavano sotto il ginocchio dove venivano fermati da un cinturino e scoprivano orripilanti calzettoni spesso a losanghe. E spesso a losanghe erano pure i maglioni che completavano l’outfit di quei poveri bravi ragazzi. ​
Mamma, che adorava mio fratello, lo guardava estasiata e ripeteva che si vedeva che aveva stile e classe… Così conciato? Mah! Cuore di mamma. ​

Vi risparmio come vestono oggi i nostri ragazzi, i nostri uomini. C’è di tutto. E certe volte mi viene davanti agli occhi della memoria Tonio con i pantaloni alla zuava e penso che in fondo in fondo… ​

 

 

                                

Su un giornale serio prima, e poi su uno di questi aggeggi tecnologici, ho notato un giovinastro ricoperto di tatuaggi sino al collo. Ho detto “ricoperto” e non ho esagerato: scritte, disegni, fasce di non so che; persino a colori, non solo nero. ​
– “Che orrore!” ho detto a mia figlia, anche perché il tizio, sia sul giornale cartaceo che su quello via mail era abbracciato ad una graziosissima biondina dall’aspetto civile pulito ed ordinato. ​
– “Ma che dici? Sono sposati ed ambedue sono importantissimi influencer e…” ​
Vi risparmio il resto; sottolineo solo che se il tizio, oltre che cantante è davvero un influencer, molti nostri giovani verranno spinti a tatuarsi. ​
Sapete, vero, che alcuni decenni fa il tatuaggio era caratteristica dei carcerati? Quest’usanza abominevole risale a 5000 anni fa e poi con lo scorrere dei secoli ha assunto significati diversi, a volte negativi, altre positivi. ​
I romani antichi così marchiavano i criminali, poi videro che presso i britannici il tatuaggio era un segno d’onore e ripresero l’usanza di tatuarsi, proprio come è avvenuto da noi. ​
Non vorrei dire che ai miei tempi era meglio, ma, accidenti!, non riesco a pensarla diversamente. ​

Mentre malignamente penso che è doloroso e costoso cancellare queste opere d’arte, qualcuno mi dice che sono anche pericolose per la salute. La malignità si dissolve, ma continuo a pensare che due sberloni al primo disegnino idiota potrebbero risolvere il problema.​

 

 

                                

Quando ero una ragazza, mille anni fa, appunto, la maggior parte delle case non era riscaldata o, meglio, veniva riscaldata con sistemi semplici, in primis il braciere, un recipiente di rame pieno di carbonella rovente. Ogni tanto le braci venivano smosse e più forte si avvertiva il calduccio.​
 Le stufette ad elettricità erano piuttosto care per i miseri stipendi di quegli anni. Lunghi tubi di stoffa imbottiti di stracci, posti alla base di finestre e balconi, impedivano al freddo ed al vento di entrare. A letto si andava con “il monaco”, una sorta di mattone rovente ben avvolto in panni di lana che mitigava il freddo delle lenzuola. C’erano poi – e soprattutto – maglie maglioni sciarponi berretti guanti. A scuola nei giorni più freddi noi allievi chiedevamo il permesso di tener su i cappotti; le aule erano intiepidite da una stufetta elettrica generalmente orientata verso i prof. ​
Oggi, quando leggo di proteste eco verdi ecologiste mi tornano in mente i geloni, ora ​
completamente scomparsi: per il gran freddo la punta delle dita si illividiva, si gonfiava talvolta fino a sanguinare, e doleva. ​
Non sto parlando di piccole fiammiferaie e spazzacamini; eravamo borghesi e proletari non poveri. ​
Oggi quasi tutte le case, le scuole, gli uffici sono riscaldati, ma “in compenso” veniamo additati al pubblico ludibrio perché  con le nostre esigenze stiamo distruggendo letteralmente il pianeta. ​
Io appartengo a quell’ormai esiguo gruppo di persone che ascoltano gli scienziati e non le femminazze urlanti: “Vergogna, pensiamo ai nostri figli!” sia che si sciolgano i ghiacciai sia che il cane del vicino abbia abbaiato tre notti di seguito, e pertanto rifiuto categoricamente di farmi colpevolizzare. ​

Penso, spero, che una soluzione ci sia, un qualcosa che ci consenta una vita gradevole e nel contempo non faccia sciogliere i ghiacciai al polo. ​

 

 

                                

Studi ponderosi sottolineano come in pochi, pochissimi anni i nostri usi e costumi siano mutati in modo radicale.​

Arranchiamo dietro la tecnologia, ma soprattutto ci viene il fiatone cercando di capire, di adeguarci a cose sino ad ieri inconcepibili.​
Io, ad ogni cambiamento di quelli scioccanti  inizio con battute buffe, incredule. Quando la cosa si fa comune, accettata dalla maggioranza, cerco di capirla, analizzandola da prospettive differenti, tentando di comprenderne la giustezza…più o meno.​

Talvolta ci riesco, talaltra no, ed allora mi dico che è non è un problema mio se il mondo va così, non posso farci nulla. E, con un pizzico di nostalgia, mi attacco a particolari piccoli, inoffensivi, di quelli che non mi fanno sentire del tutto Alice nel paese delle meraviglie.

 

Gabriella Pastorino​