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La città di Battipaglia il 9 Aprile del ’69, giorno di uno sciopero generale, fu sconvolta da violente azioni insurrezionali. Costrette alla resa le forze dell’ordine che incautamente avevano attaccato gli scioperanti causando due morti, per 24 ore la città rimase in balia della folla inferocita che sfogò la propria rabbia bruciando il Commissariato e vari automezzi delle forze dell’ordine tra cui una macchina della volante incastrata nel portone del Municipio e data alle fiamme. Tutto questo e gli oltre 200 feriti tra dimostranti e forze dell’ordine danno l’idea della battaglia avvenuta.

Ma perché successe tutto questo? Quali le cause, quale il contestosocio-economico.

Lo sciopero generale in città era stato organizzato per protestare contro la chiusura del tabacchificio e dello zuccherificio, preceduta dalla chiusura del conservificio Baratta, primo e più importante opificio della città. Tre industrie di quella filiera agro-alimentare che aveva prodotto in pochi decenni la crescita esponenziale, demografica, economica ed urbanistica del nostro Comune.

La mia è una breve testimonianza “ de visu “ perché da figlio di produttore agricolo il contesto socio-economico nel quale era maturato lo sciopero generale lo vivevo direttamente.

La gravissima crisi industriale di quel periodo fu solo la conseguenza della più vasta crisi già avvenuta nella produzione agricola che aveva causato la mancanza della materia prima da lavorare nelle fabbriche. Infatti non si produceva più la barbabietola da zucchero perché poco remunerativa, si era quasi azzerata la produzione del tabacco perché le varietà coltivate erano state attaccate da una virosi che ne impediva la coltivazione. Per poter continuare quella coltivazione e alimentare alcuni dei numerosi tabacchifici del territorio fu avviata, soprattutto nei terreni di S.Lucia, la coltivazione di un nuovo cultivar di tabacco, cosiddetto tropicale perché richiedeva un clima caldo umido simile a quello dell’America Centrale o del Sud-est asiatico ma che da noi non esisteva. Per ottenerlo si costruirono degli impianti, una specie di serre ante-litteram, con strutture coperte da una sorta di tessuto sotto il quale con temperature più elevate e con continue irrigazioni a scorrimento si determinava un microclima di tipo tropicale.

Ma l’elevatissimo costo ne sconsigliò la prosecuzione. Viceversanei Paesi tropicali quella coltivazione aveva costi molto più bassi che da noi. E fu questo il motivo per il quale la coltivazione del tabacco si spostò tutta in quelle aree del pianeta.

Fu la legge del mercato mondiale che pure allora già esisteva, non il disegno perverso di qualcuno che voleva danneggiare la nostra Piana del Sele.

Infine, era andata in crisi la coltivazione del pomodoro che a causa dell’eccedenza produttiva determinava prezzi bassissimi; pensate che nel pieno della raccolta, a volte, il prezzo del prodotto pagatodall’industria conserviera si abbassava fino a 6 (dico sei) lire al chilo! Una vessazione cui inutilmente cercò di sottrarsi la miriade dei produttori, non rappresentati da nessuna organizzazione di categoria, quindi senza nessun potere contrattuale nei confronti della controparte dei conservieri che invece facevano tra lorocartello. Il Ministero dell’Agricoltura per far fronte all’eccessivosurplus produttivo e aiutare i produttori intervenne consentendo di raccogliere il prodotto, per far lavorare gli operai nelle campagne per poi inviare al macero parte del prodotto tramite una struttura appositamente creata il cui acronimo era AIMA.

Questi esiti rendevano evidente l’esaurirsi di un ciclo produttivo che aveva fatto grande il nostro territorio.

Ma se ne stava avviando un altro, quello legato all’ortofrutta.

Siamo nella seconda metà degli anni ’60 e il benessere economico conseguente al boom della ricostruzione postbellica andava dispiegando i suoi effetti anche sulle abitudini alimentari. Una di queste fu l’introduzione diffusa della frutta nella dieta. I produttori agricoli più lungimiranti e attenti alle variazioni del mercato capirono e colsero questa opportunità.

Furono perciò avviati nuovi, moderni ed estesi impianti di frutta: pescheti, pereti e albicoccheti, oltre a modificare l’estetica del paesaggio rurale, costituirono l’ossatura del nuovo ciclo produttivo che sostituì quasi del tutto le superfici precedentemente coltivate a tabacco o a bietole e fu ridotta molto la coltivazione del pomodoro. I risultati economici furono immediatamente positivi. Al punto che ci fu una contrazione anche nel settore zootecnico. Le stalle si svuotarono liberando così gli allevatori da un perenne impegno quotidiano, senza alcuna festività, nell’accudimento del bestiame, mucche da latte o vitelli da carne che fossero.

Questo nuovo indirizzo dell’ortofrutta non ebbe tuttavia a supporto una filiera agro-alimentare sul territorio, perché né il pubblico né i privati ritennero di investire nell’industria di trasformazione della frutta il cui sbocco commerciale rimase solo il consumo allo stato fresco.

Infatti le numerose industrie impiantate in conseguenza di quei moti, grazie all’intervento del governo, operavano sì in settori all’avanguardia del mondo produttivo, quali la telefonia,l’elettronica o la componentistica, ma erano totalmente sganciate dalla vocazione agricola del territorio. Una scelta politica direi frettolosa fatta sia per placare la collera popolare sia per acconciarsi nella più “comoda e remunerativa” gestione, non solo elettorale, dei flussi finanziari erogati dall’allora Cassa per il Mezzogiorno.

Prese così l’avvio quella cesura, credo assai negativa, tra mondo agricolo e mondo industriale che ha determinato i destini della nostra comunità nei decenni successivi.

Italo Galante