Seleziona una pagina

City destroyed by an earthquake

Il 23 novembre dell’80 la scossa fu terribile, lunga, preceduta da un boato sordo, pauroso.

Le case vennero giù come quando, da ragazzini, con una manata mio fratello faceva crollare le mie costruzioni di carte…  il primo piano con i segni all’esterno, il secondo con il retro in bellavista e se arrivavo al terzo, il re di denari proprio in mezzo.​
Le carte sparpagliate sulla scrivania, le mura delle case per terra a pezzi o sbriciolate.​
La parete di destra di casa mia resse ed io rimasi inebetita accanto al camino, sbalzata dalla seggiola bassa di paglia.​
Avevo 60 anni, 60 anni di tanto tempo fa, ossia ero una vecchia.​
Quando rimasi per strada, letteralmente, capii che per me era finita.​
Mi accucciai su un materasso che i soccorritori avevano sistemato sul pavimento della scuola elementare, la stessa in cui avevo insegnato fin quasi alla pensione; quell’edificio sciatto e vecchio aveva mura spesse che avevano resistito. ​
Stavo lì, avvolta in due coperte di un brutto color fango ma calde calde e morbide. Mangiavo quello che davano a me e a tutti i terremotati, facevo la fila per andare al gabinetto, ed ogni tre giorni facevo la doccia. Indossavo una specie di cappotto azzurro scuro che le volontarie chiamavano robe manteau ossia abito cappotto, un vestito abbottonato come un cappotto.​
Aspettavo la morte. Credetemi, non è una frase fatta, veramente capivo che per me tutto era finito. ​
Sapevo di aver diritto ad una pensione, ma non avevo ancora visto una lira. Già in condizioni normali lo stato arrancava malamente ad assolvere ai suoi doveri, figuriamoci dopo un terremoto così devastante.​
Così passavo le giornate di quell’inverno maledetto, immobile su un materasso.​
La tenda non l’avevo voluta, e meno male: i primi che ci erano andati ora morivano di freddo.​
Nella scuola, nel bozzolo accogliente della robe manteau, abbracciata dalle coperte, aspettavo che mi si fermasse il cuore. ​
Intorno il mondo aveva ripreso a girare. Qualcuno oltre il rancio – così lo chiamavo – mi portava ogni tanto qualcosa di caldo, di buono.​
Arrivavano da non so dove chili di costatelle di maiale e qualcuno me ne dava un paio. Quando signore deliziosamente profumate ed impellicciate vennero a cucinare per noi, io ebbi ben tre porzioni di gnocchi al ragù.​
Ecco, cose così, in attesa della morte che comunque si era fatta di nuovo viva fra noi. La morte che si faceva viva mi aveva fatto ridere e con me rise una bella brunetta con le lentiggini sul naso,  tondetta e carina che ogni tanto veniva a cercarmi e a tenermi compagnia. Mi resi conto con piacere che si preoccupava per me. Anche lei era maestra ma, a 28 anni non aveva fatto manco un giorno di supplenza. Quando me lo diceva e lo ripeteva, mi guardava da sottecchi aggiungendo che non pensassi a lei come ad un’ignorantona. “…è che ci sono strane graduatorie che si intersecano e quando penso di essere abbastanza avanti inseriscono un altro gruppo di non so chi ed io vengo rispedita nelle retrovie”​
E continuava, certa di farmi piacere.​
Io sorridevo appena e appena sola mi stringevo nelle coperte calde e mi dicevo che io non avevo problemi visto che fra poco sarebbe arrivata la morte; anzi fra pochissimo si sarebbe fatta viva la morte​
………..Ieri sera – oggi è il 24 marzo 2019 – ho trovato questo foglio ben ripiegato fra le pagine di un quaderno della mia prozia, la maestra Maria Severa, che tutto il paese aveva appena accompagnato al cimitero.
                                               Gabriella Pastorino​