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Per decenni, come mamma e come prof., ho rifiutato di colpevolizzare a priori i genitori per le cavolate dei figli; mi disturbava persino che nel giudicare si sottolineasse la provenienza familiare, e tacevo di fronte all’evidenza di certi nuclei affettivi disastrati. ​

Quando i miei ragazzini crescevano, talvolta mi arrendevo impotente di fronte a prese di posizione cretine e sicuramente foriere di pasticci e sconfitte; ma non volevo ripetere lo schema educativo della mia ottima intelligente mamma che diceva, ripeteva e menava. Niente di trascendentale, per carità, ma una sberla ben data era prima di tutto un affronto morale. Ed i risultati arrivavano sempre.​
Poi, col passare degli anni, guardandomi intorno con curiosità e bonomia, ho fatto tanta tanta esperienza.​
Sono stata spesso coinvolta in situazioni particolari, specie nel periodo in cui insegnavo in una scuola che raccoglieva le piccole infelici ospiti di un collegio di suore. Una delle religiose mi aveva scoperto sentimentalmente debole e mi rifilava tutte le patate bollenti che capitavano nell’istituto; spesso mi scontravo verbalmente con lei che, giovane, colta e sicura di sè, addossava ogni colpa alle famiglie, generalmente composte da madri con compagni che magari volevano far compagnia anche alle ragazzine giovanissime. ​
Poi un anno, per una questione interna di supplenze, avevo corretto i temi degli alunnetti di una classe non mia. Lessi una frase che immediatamente mi rifiutai di accettare nella sua sconvolgente oscenità, ma la mattina seguente bloccai la collega che mi confermò l’orrore: la nostra alunnetta aveva un fratello tossicodipendente che quando tornava a casa per pochi giorni la “usava”. Nel tema, nella sua infinita solitudine, la piccola, tolta alla famiglia e chiusa in istituto, diceva di sentirne la mancanza. Quando arrivavano le feste, piangeva e si disperava perché voleva tornare a casa. Un’assistente sociale aveva trascorso per due anni il natale in quell’orrore di casa per paura che arrivasse il fratello. Quell’anno si rifiutava.​
“E la madre?” chiesi io, prima alla collega poi alla suora che, imitandone la cadenza, ripeté il ritornello della sciagurata che si giustificava:​
– “Che ti debbo di’? Figlia m si’ tu e figlio m’è isso”.​
Ero annichilita. Mi sprecavo in regalini e torte, ma nell’istituto vigeva la regola cristiana che tutto è di tutti e quello che davo finiva a volte alle altre.​
Così arrivavo a scuola con pasticcini e fettoni di torta, mi inventavo una scusa, facevo uscire la piccola dalla classe e la ingozzavo. Non potevo fare altro.​
Era uno dei giorni fra natale e capodanno ed andai all’istituto con non ricordo cosa. Faceva un freddo cane ed una suora – ero appena entrata in macchina – mi chiamò chiedendomi di dare un passaggio ad una signora. La ricordo ancora, tondetta, ben pettinata, un cappotto pesante stretto in vita e gli stivaletti col mezzo tacco. ​
-“Ma certo, ma le pare” e le aprii pure lo sportello. L’avrei lasciata alla fermata dell’autobus e “…ma mi dica dove va, fa tanto freddo”. Mi rispose, ringraziandomi… e risentii la cadenza della suora: “Che ti debbo di’? Figlia m si’ tu e figlio m’è isso”​
-” Siete la mamma di…”​
– “Si, songo venuta per…”​
Ero alla fine del viale alberato. Un colpo di freno. ​
-“Scendete, mi sono ricordata di avere un impegno”​
– “Ma la suora…” Scese.​
La piccola l’anno seguente scappò pure dall’istituto.​
Mi è tornata in mente quella schifosa, ieri quando ho letto che​
la mammina amorosa di una delle bestie che a Manduria si divertivano torturando fino ad ucciderlo un povero cristo ritardato, ha preso le difese del figlio, buttandola sul sociale: Lo stato non dà niente al paese ed i giovani non sanno come passare il tempo; perciò, quando ci si scoccia, tutti insieme si lega, si tortura, si terrorizza, si sevizia e, poichè si è moderni, si filmano le prodi gesta.​
Mi fanno troppo schifo questi laidi giovinastri idioti che spero vengano duramente puniti, ma una voce mi sibila dentro che poverini, con quei genitori… ​

Gabriella Pastorino​