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Anni fa Panorama pubblicò un dossier accurato ed intelligente sull’Iran; Poche le notizie importanti, quelle che oggi si trovano in internet, molto ampia ed interessante invece la storia dei Palhavi e soprattutto l’analisi del crollo del sogno dello shah Reza che mirava a portare il suo paese nel ventesimo secolo, sulle orme delle avanzatissime nazioni europee.

Il giovane shah “liberò” le donne, consentendo loro di andare a scuola, all’università persino, e favorì in ogni modo l’aggancio del suo paese con la tecnologia e la modernità.

Ma fallì.

In Turchia aveva seguito lo stesso iter mentale e pratico Mustafà Kemal, detto giustamente e con decreto parlamentare, Ataturk il padre dei turchi.

“Pace in casa, pace nel mondo” recita  il Preambolo della Costituzione della Repubblica Turca; niente a che fare con il Corano, vangelo e costituzione per l’Islam.

Nonostante la Turchia, soprattutto a livello popolare, fosse rimasta intrinsecamente conservatrice, le riforme di Mustafa Kemal la avvicinarono sensibilmente all’Europa.

In ambito giuridico egli abrogò ogni norma e pena che poteva ricollegarsi alla legge islamica, promulgò un nuovo codice civile sul modello di quello svizzero e un codice penale basato sul codice italiano dell’epoca, mantenendo tuttavia la pena di morte.​Ataturk mantenne l’Islam come religione di Stato  per non turbare eccessivamente i più religiosi, ma pose le organizzazioni non laiche sotto il controllo statale. ​

Così esprimeva la sua aperta disapprovazione verso l’Islam:

«Per quasi cinquecento anni, queste regole e teorie di un vecchio arabo e le interpretazioni di generazioni di religiosi pigri e buoni a nulla hanno deciso il diritto civile e penale della Turchia. Loro hanno deciso quale forma dovesse avere la Costituzione, i dettagli della vita di ciascun turco, cosa dovesse mangiare, l’ora della sveglia e del riposo, la forma dei suoi vestiti, la routine della moglie che ha partorito i suoi figli, cosa va imparato a scuola, i suoi costumi, i suoi pensieri e anche le sue abitudini più intime. L’Islam, questa teologia di un arabo immorale, è una cosa morta. Forse poteva andare bene alle tribù del deserto, ma non è adatto a uno Stato moderno e progressista.​

La rivelazione di Dio? Non c’è alcun Dio! Ci sono solo le catene con cui preti e cattivi governanti inchiodano al suolo le persone. Un governante che abbisogna della religione è un debole. E nessun debole dovrebbe mai governare.» 

Marx sintetizzava: La religione è l’oppio dei popoli.​

Ataturk laicizzò lo Stato,  riconobbe la parità dei sessi, istituì il suffragio universale, la domenica come giorno festivo, proibì l’uso del velo islamico alle donne nei locali pubblici (legge abolita solo negli anni 2000), adottò l’alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema metrico decimale e proibì l’uso del fez e del turbante, troppo legati al passato regime, così come la barba per i funzionari pubblici e i baffi alla turca per i militari.

Il suo sistema autoritario incentrato sul partito unico garantiva la stabilità e la sicurezza dello Stato. Temendo rigurgiti islamisti, l’esercito venne  autorizzato a colpi di stato per difendere la laicità.​​

Ataturk morì di cirrosi epatica nel 1938;  le sue spoglie riposano in un mausoleo appositamente costruito per lui ad Ankara, capitale dello Stato repubblicano che egli contribuì in modo decisivo a creare. Gli sono stati dedicati l’areoporto e lo stadio.​

L’insultarlo è un reato, e tuttavia il primo ministro islamista Recep Tayyip Erdoğan, chiedendo in parlamento una legge più restrittiva sugli alcoolici,  disse che quella in vigore era stata scritta da un ubriaco, chiaro riferimento ad Atatürk, consumatore di bevande alcoliche al punto da morire di cirrosi epatica.​

Il progetto di Ataturk era lo stesso dello shah Reza Palhavi, conosciutissimo ed amato in occidente.

Il giovane nel 1941 a ventidue anni venne incoronato shah-re e imperatore, grazie ai buoni uffici di Stalin e Churchill, preoccupati che l’Iran potesse avvicinarsi alla Germania nazista.​

Lui non tagliò del tutto i rapporti con il clero che gli organizzò contro  il forte malcontento interno ignorato dalla stampa internazionale, che, interessata soprattutto ai suoi amori ed ai problemi dinastici, ne esaltava il fascino e l’eleganza,​

Sapevamo tutto della prima moglie egiziana, di Soraya, la principessa dagli occhi tristi che non riuscì a dargli un figlio, sapevamo delle sue pene d’amore, di Farah Diba, giovane nobile e virtuosa che gli diede gli eredi agognati, senza soppiantare Soraya nel suo cuore.

Roba da Novella 2000, per intenderci.

Nel contempo su testate più impegnate si moltiplicavano i reportage giornalistici su signorine iraniane che, vestite all’occidentale, frequentavano l’università. Nulla tuttavia i nostri giornali riferivano delle carceri persiane piene di dissidenti, così che quando sulle pareti della underground londinese lessi qualcosa, scritta in arabo ed in inglese, su torture inflitte ai prigionieri iraniani, cascai dalle nuvole.

Ma presto anche la stampa più superficiale non poté ignorare i primi violenti moti popolari che costrinsero Reza Palhavi a fuggire e consentirono, a rivoluzione avvenuta, il ritorno in patria dell’Ayatollah Komeini, nascosto da tempo a Parigi; egli raccolse il frutto di una rivoluzione che mirava alla libertà da uno shah occidentalizzato, non certo al salto nel medioevo proprio dell’islamismo.

All’inizio del 1979 Reza Palhavi  lasciò per sempre l’Iran. Riparò in America, per morire un anno e mezzo dopo in Egitto, al Cairo.

A Teheran le giovani colte ed evolute che per protestare contro lo shah durante le marce avevano indossato il burka come simbolo antioccidentale, quando, a vittoria raggiunta vollero sfilarselo per riprendere a studiare e lavorare, si videro imprigionate per sempre in quel sudario, espressione palpabile della mentalità islamica.​

Il dossier di Panorama cui ho fatto cenno riportava molte foto di ragazze, di come erano ai tempi dello Shah e come sono ora, sotto il predominio assoluto degli ayatollah, cancellate dal chador che loro stupidamente avevano indossato durante le marce di protesta contro Reza Palhavi. Gli articoli erano illustrati da foto del periodo della rivolta, immagini di donne mie coetanee, come me studentesse universitarie, a me somigliantissime nel vestire, negli atteggiamenti disinvolti, e si raccontava come dal tailleur, dal pigiama palazzo fossero arrivate “consenzienti” al chador. 
Certi inganni andrebbero fatti conoscere nella loro verità ai nostri “rivoluzionari” con il Rolex, alle tante, tantissime donne che hanno stravolto significato e finalità del femminismo, asfaltandolo a livelli boldriniani. Infangando battaglie di decenni per approdare alla Murgia, all’odio verso il maschio che sovente le rifiuta, alle quote rosa che di fatto cancellano la parità reale da raggiungere con studio e lavoro.

          Gabriella Pastorino