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Avevo sempre sentito mio padre raccontarmi di quel suo periodo di vita trascorso in tempo di guerra in un paesino della pianura padana, Ticengo, in provincia di Cremona, il ricordo, ancora oggi, è per me nitido pur avendo perso mio padre da un pezzo.
Si era tra il 1945 e il 1950, mio papà, nato a Ravenna, aveva conseguito un titolo di studio presso una scuola agraria di Cesena, ritengo per l’epoca abbastanza qualificante, con il quale trovò subito lavoro in Lombardia.
A Genivolta, altro piccolo paese del cremonese, iniziò la sua carriera lavorativa. In quelle campagne della pianura padana le case singole erano poche, per la maggior parte erano “corti”, ossia grandi cascine circondate da un muro perimetrale con la stalla, il fienile, il pollaio, i cavalli, il pozzo, alcune erano dotate persino di chiesetta. All’interno del grande cortile c’erano i vari piccoli usci attraverso i quali si accedeva alle singole unità abitative dei dipendenti del fattore, ossia quel signore che aveva incarico di mandare avanti l’azienda agricola di cui era titolare qualche latifondista della zona, servendosi proprio degli operai, sia uomini che donne, che abitavano la corte. Mio padre, che quindi era il fattore, aveva il privilegio di godere di una piccola casetta autonoma all’interno della corte stessa.
Al mattino si andava al lavoro prestissimo, nei campi andavano sia uomini che donne e queste ultime, non erano discriminate. A casa rimanevano le persone più anziane, i bambini piccoli e solo qualche mamma che accudiva i propri bambini ed anche quelli di altri abitanti della corte. I bambini in età scolare, andavano a scuola a piedi, o in bicicletta, i più fortunati venivano accompagnati con il carretto.
All’interno delle corti si creava una sorta di tacita cooperativa di mutuo soccorso, ci si aiutava a vicenda, con scarse rappresaglie o litigi condominiali di cui oggi siamo spesso testimoni.
Alla sera ci si sedeva fuori a recitare il rosario o a cenare insieme, con quello che si poteva portare a casa dalla campagna. Insomma le corti erano piccole cooperative organizzate, all’interno di paesini più grandi, e lì non mancavano mai la solidarietà e la fede nella provvidenza.
Dopo una sistemazione temporanea a Genivolta, mio padre decise di prendere casa e portare con sé i suoi genitori già abbastanza anziani, acquistò così a Ticengo, un piccolissimo borgo che oggi conta poco più di 400 abitanti, all’epoca invece più di 900.
I racconti che sentivo da lui quando ero bambina erano come intrisi di sofferta nostalgia. Di quelle immense distese di pianura coltivate a mais (frumentò in forma dialettale), grano e erba medica mi segnalava i colori: verde brillante ed intenso in estate, giallo ocra da ottobre in avanti. Poi c’era la nebbia e l’umido. La nebbia a volte era talmente fitta in certe sere d’autunno, che nel tornare a casa in bici rischiavi di infilarti in qualche altra cascina che non era casa tua. Il freddo pungente ti costringeva agli scalfarotti, dei grossi calzettoni di lana a maglia, fatti a mano dalla mamma. Nel letto c’era il prete per scaldare le lenzuola, un baldacchino di legno che aveva, nella base, una vaschetta interna di latta dove si metteva la brace, la sistemazione nel letto era un’operazione delicatissima che andava fatta con tanto di prove e verifiche antincendio.
Uscendo di casa al mattino, se non aveva nevicato
e le condizioni meteo erano ancora accettabili, era facile trovare la galaverna nelle reti metalliche, ossia gocce di rugiada notturne che con le basse temperature, creavano lastrine di ghiaccio sottili che riempivano i fori delle recinzioni, dando vita a paesaggi lunari.
Queste furono le sensazionali storie che allietarono la mia infanzia, intanto che sgambettavo in altre dimore della provincia di Salerno, dove mio padre ha vissuto gioiosamente per il resto della sua vita con la mia mamma.
Ora senza raccontarvi il come e il quando, vi dirò sinteticamente che la vita a volte è davvero bizzarra e ti riserva intrighi e sorprese fatti di recondite alchimie e di inaspettati risvolti che mancano di spiegazioni oggettive.
I racconti di mio padre si sono improvvisamente tradotti in un pezzo reale della mia vita, la campagna sconfinata del piccolo paesino di Ticengo è diventata la mia terra del cuore, la casa dei miei nonni è diventata la mia casa.
Ho vissuto a Ticengo per circa 20 anni, ho ripercorso in bicicletta le stradine di campagna che batteva mio padre in moto o in bici tanti anni prima, ho pregato nella stessa chiesa dove qualche volta andava lui e ancora oggi ritorno in quel minuscolo cimitero ordinatissimo, senza tombe in terra, ma fatto solo di colombari, ossia loculi a parete con la luce votiva sempre accesa e i fiori perenni sulla tomba dei tuoi cari (se non li metto io c’è sempre una mano ignota che lo fa per me).
Ho fatto l’assessore ai servizi sociali e il vice sindaco per qualche anno, raccogliendo soddisfazioni inattese. Non mi metterei mai in politica, ma là ho potuto farlo, è stata una simpatica avventura gestire 400 anime, nessun gioco di potere, nessun interesse personale, ma solo poche cose utili per il benessere della piccola comunità.
Le condizioni climatiche, nel corso degli anni, sono molto cambiate, nevica solo qualche volta tra dicembre e febbraio, periodo in cui fiorisce il calicantus (un fiore profumatissimo di colore giallo con i pistilli rossi), i giorni di nebbia fitta sono sempre meno, e la galaverna ho avuto il piacere di vederla solo qualche rara volta.
I colori della campagna rimandano sempre ai miei antichi ricordi, la primavera è un’esplosione di verde sgargiante, immenso ed intenso. Mi piace sempre tanto ritornare a calpestare quella terra dove continuo a spendere qualche giorno di vacanza alla ricerca di vecchi amici e antiche emozioni.

Enrica Suprani