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“Un uomo e una donna” è un racconto che sarà pubblicato diviso in due parti.

Quella che segue è la prima.

La seconda sarà on line da domani 3 febbraio 2020, alle 15.

Buona lettura! 📚📑📓

Una giornata come tante nell’ultimo periodo, divisa tra lavoro e lunghe passeggiate sul lungomare Caracciolo: ero in quella zona per commissioni e mi sono trovata a passare davanti al terrazzino esterno del Caffè Moak. Quasi automaticamente, ripetendo un percorso noto, sono entrata e mi son seduta nella sala interna, al tavolino accanto all’ampia vetrata che dà sulla piazza dove infinite volte avevo incontrato Dario.

Il cameriere si è avvicinato e mi ha salutato incerto, con l’espressione di stupore di chi ti conosce e non ti vede da tempo. Ho chiesto un aperitivo e, nell’attesa, ho preso dalla borsa alcuni appunti da sistemare per un seminario da tenere di lì a pochi giorni. Sorseggiando il prosecco e sgranocchiando dei grissini al rosmarino mi son trovata ad aspettare Dario come la sera in cui lo attendevo trepidante per iniziare un nuovo percorso di vita insieme.

Un lungo sospiro colmo di rimpianto e come in un film ho rivisto i momenti più importanti del pezzo di vita vissuta con lui.

Ci incontrammo, anzi, scontrammo in una tiepida giornata primaverile. Quel pomeriggio via Chiaia era affollatissima. Ogni giorno la percorrevo tutta fino al garage interrato dove parcheggiavo la macchina. Ero di corsa per un appuntamento dal commercialista per valutare alcune opzioni finanziarie. Ero scesa velocemente da casa, tre piani senza ascensore, chiavi in mano, borsa in spalla e trench sottobraccio, non indossato per guadagnare tempo. Correvo quasi, rallentata a tratti dalla gente che passeggiava godendosi la luce in più che regalava un tramonto restio a farsi sera.

-“Ecco, ci mancava questo” sbuffai, mentre il soprabito finiva sul marciapiede, seguito un attimo dopo da borsa e chiavi. Mi chinai per raccoglierli e mentre frettolosamente mi rialzavo urtai una persona. Alzai lo sguardo, attimi veloci, occhi negli occhi e di nuovo la borsa finì a terra. L’uomo me la raccolse e porgendomela chiese:

-“Si è fatta male?”. Era bello e bruno e per un momento mi persi nei suoi occhi. -“No, sto bene, grazie. Mi dispiace, andavo di fretta!”

-“Ecco le sue cose. Prendiamo un caffè?”

-“Sì. No, ho troppa fretta”

– “Lo prendiamo domani, al Moak, a quest’ora?”

-“Sì.”

-“Sono Dario”

-“Io sono Tizia”

-“Tizia?”

-“Tiziana, ovviamente, ma sono Tizia per tutti”. E scappai.

°°°

– Sono molto stanca, stanca davvero; la seduta in sala operatoria è stata dura e non finiva mai” mi lamentai fra me e me, mentre riflettevo con la mia equipe sull’utilizzo di una tecnica mini invasiva per un’insufficienza mitralica su un ragazzo trentenne. Avremmo evitato di ricorrere alla circolazione sanguigna extracorporea e l’apertura delle camere cardiache. Andò bene e a casa mi rilassai nella vasca colma di acqua molto calda. Quelli erano i momenti in cui i pensieri si accavallano e mi chiedevo quali sono i valori importanti della vita, a cosa dare la priorità, quali sogni avevo abbandonato e messo da parte per inseguire quelli degli altri.

Inevitabile arrivava la presa di coscienza che la carriera brillante intrapresa da giovanissima era prevalentemente il frutto del desiderio di mamma e papà che volevano avere una figlia realizzata della quale – perché no? – vantarsi agli incontri in società, ai tornei di bridge e alle partite di golf della domenica al circolo.

Papà, noto pneumologo in pensione, non aveva mai smesso di occuparsi di medicina, ed aveva fondato con due colleghi una struttura sanitaria di cui era socio di maggioranza: Villa Rosa, ancora oggi una clinica privata all’avanguardia non solo per la presenza di macchinari unici sul territorio nazionale, ma anche per la presenza di specialisti di alto livello, tra cui la dottoressa Tizia Baldi. Si, io! cardiochirurgo affermato e docente alla Federico II, nome noto e ricercato dalle più prestigiose pubblicazioni scientifiche.

°°°

L’indomani aprii l’armadio pensando a cosa indossare per incontrare lo sconosciuto. -“Mah, avrò fatto bene secondo te ad accettare? Con Vincenzo è finita da pochi mesi, sono molto presa dal lavoro, non voglio complicazioni sentimentali adesso!”- dissi, con la cornetta del telefono appoggiata all’orecchio. Dall’altra parte dell’apparecchio l’amica di sempre, Viola, rispose:

-“Sì, hai ragione, la separazione è stata difficile, ma in fondo il vostro matrimonio era finito da tempo, ed entrambi ne eravate consapevoli. Perciò basta dubbi: è solo un caffè”.

Si, era solo un caffè, ma quell’uomo mi aveva colpito, non riuscivo a togliermi dalla mente il suo sguardo, la sua voce, il garbo dei suoi gesti che in realtà avevo osservato per un paio di minuti. Viola mi descrive “sempre così razionale e lucida e dedita alla professione”; e allora perché avevo accettato quell’incontro?

Inevitabilmente pensai a mio marito, anzi ex marito, incontrato all’università, lui studente in Architettura, io in Medicina. Siamo stati sposati per otto anni. Lavoravamo entrambi l’intera giornata, proiettati alla realizzazione professionale. Durante gli anni dell’università, avevamo condiviso lo stesso appartamento, insieme con altre tre persone, tra cui Viola, che era rimasta la mia migliore amica. Viola aveva sposato il fratello di Vincenzo, ma il mio divorzio non aveva assolutamente minato la nostra amicizia.

°°°

Arrivai al Cafè Moak in anticipo e lo vidi seduto a un tavolino che affaccia direttamente sulla piazzetta. Il Cafè Moak è un bar storico, ben frequentato. Lo caratterizza da sempre l’arredamento classico, composto da ampie poltrone in velluto verde scuro e tavolini di legno finemente lavorati. Alle pareti specchi anticati riflettono la luce che entra a fiotti dalle ampie vetrate.

Mi vide subito. Lo guardai facendo un cenno col capo, e abbassai subito gli occhi. Lo trovai accanto a me, sorridemmo imbarazzati, mentre mi scortava al tavolino.

Ci presentammo di nuovo: Tizia, Dario. Iniziammo a parlare di noi, del nostro lavoro in primis. Appresi che era manager di una società napoletana e che, tra riunioni ed appuntamenti, era impegnato tutto il giorno, proprio come me.

Poi la chiacchierata si fece più personale: io, sorseggiando un caffè lungo al ginseng, gli dissi che sono ultima di tre figlie, venuta al mondo quando le prime due erano già quasi ventenni. Con semplicità ammisi che probabilmente la necessità di affermarmi era dovuta anche a questo fattore.

Poi parlò lui che ancora centellinava il suo espresso con piccoli sorsi:

-“Sono nato ed ho studiato a Milano, dove mi son trovato sempre bene; la città offre molte opportunità” e continuò raccontando del suo trasferimento a Napoli per l’esigenza dell’apertura di una sede distaccata dello studio milanese. I suoi sono di origini napoletane e lui non aveva avuto difficoltà alcuna ad inserirsi.

Arrivata l’ora di salutarci, mi invitò a rivederci per un caffè, sempre lì al Moak. Rimasi incerta, lo guardai, Dario balbettò qualcosa su quanto fosse stato gradevole aver trascorso il pomeriggio insieme. Accettai. Ci saremmo rivisti due giorni dopo, stesso posto, stessa ora.

°°°

Gli avevo parlato della mia separazione e di come fosse stato doloroso e difficile divorziare dall’uomo con cui avevo trascorso gli anni per me più formativi anche dal punto di vista spirituale.

Lui, lapidario, di sé disse:

-“Sono sposato e ho un bimbo di otto anni, Marco”.

Non capivo perché Dario avesse voluto rivedermi; io ero libera ma lui no, non lo era affatto, ma comunque quando ci salutammo, accettai di rivederlo.

-“Ma perché sei così, o tutto bianco o tutto nero? Tizia, se ti fa piacere la sua compagnia e lui ti chiede di incontrarvi, vai!” mi incoraggiò Viola quando quello stesso pomeriggio le confidai le mie perplessità e i miei dubbi.

Alcuni giorni dopo Dario mi telefonò. Mi aveva chiesto il numero del cellulare, “qualora imprevisti dovessero impedirmi di raggiungerti” aveva aggiunto con un sorriso. Nonostante i miei dubbi, accettai di incontrarlo “per un caffè, naturalmente”; e non solo quella volta. Per un tacito, inespresso appuntamento, ogni martedì e venerdì ci incontravamo al Moak dove ci sentivamo a nostro agio: arrivavo qualche minuto prima perché mi piaceva guardarlo giungere e dargli il benvenuto con un sorriso, che esprimeva l’affetto che provavo per lui ed era chiara espressione di quanto fossi felice nel trascorrere del tempo insieme. Lui mostrava altrettanto interesse per me, e un pomeriggio me lo confessò.

Parlavamo di cento cose, magari sciocchine e leggere. Commentavamo canzoni e film che trasmettevano in TV, come “Il favoloso mondo di Amelie”, che sia a lui che a me piaceva moltissimo, pur se battibeccavamo simpaticamente su alcuni elementi caratteristici della personalità della protagonista. Dario era rispettoso e gentile, io spesso ironica.

Mi estasiavo nel sentirlo raccontare, esprimere opinioni, utilizzando un linguaggio forbito spesso impreziosito da vocaboli o frasi latine.

Poi, quasi inavvertitamente cominciammo a parlarci di quello che ci accadeva quando non eravamo vicini e non riuscivamo a sentirci e a vederci, nel desiderio di condividere esperienze di vita.

– Un caffè macchiato e un ginseng, grazie” ordinavamo seduti al tavolino all’aperto, dove il vento tiepido di un’estate non troppo lontana ci accarezzava il viso, mentre le labbra si schiudevano per parlare di noi, della nostra vita.

Dario non aveva mai avuto il coraggio di confessare alla moglie che l’amore che un tempo li legava ora non esisteva più. Mi raccontò che Claudia era gelosa e molto dipendente da lui. Erano sposati da dodici anni dopo un fidanzamento di cinque, una vita passata insieme: si conoscevano dalle scuole medie, pomeriggi trascorsi insieme come amici e compagni di classe fino allo scoccare della scintilla che li legò nel progetto di un futuro comune. Lei aveva interrotto gli studi dopo tre esami non superati alla facoltà di Economia e Commercio, scegliendo di smettere di studiare perché nulla la interessava. Impiegò il tempo in lavoretti, finché non arrivò il matrimonio e subito dopo Marco. Dario amava immensamente il figlio; mi confidava di aver pensato più volte di non rivedermi, preso da sensi di colpa nei suoi confronti, ma “ogni tentativo di non rivedere l’essere più speciale e unico che abbia mai conosciuto” si era rivelato inutile.

Donatella Palazzo

                                                          to be continued