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L’insegna recitava: “Si regalano sogni”.

Il negozio era un vecchio rimasuglio di epoche diverse e  troneggiava solitario accanto ad alcuni edifici scampati al declino e ad altri barcollanti di vite ormai vissute e sepolte. Aveva una piccola finestrella abbellita con cura da tendine a fiorellini verdi, legate ai bordi da strampalati acchiappasogni. L’entrata era composta da una piccola porticina rossa, nulla a che vedere con quelle degli imponenti ingressi degli edifici circostanti, ma abbastanza elegante perché le si potesse attribuire un aspetto fiero. Si saliva per una scalinata di pochi gradini, ognuno largo quanto bastava per ospitare l’intera collezione di piante grasse di tutto l’emisfero terrestre. Il suo aspetto, cosi insolito e retrò, suscitava accoglienza. Dava l’impressione di essere stati catapultati indietro nel tempo, negli anni in cui il calore di una famiglia, accovacciata attorno al camino a leggere e a raccontarsi storie, faceva da cornice all’esistenza non ancora frenetica dell’uomo. Mi affacciai alla vetrata e sbirciai dentro. Mi avevano suggerito di non tornare in Italia senza aver prima dato un’occhiata a questo esuberante negozio. Cosa ci trovassero di esuberante, non lo avevo capito. Dalla descrizione che mi avevano dato  me lo sarei aspettato in stile hippie, con pareti colorate, cianfrusaglie appese e magari statue di folletti all’entrata o vasetti di fiori ai muri. Invece, eccezione fatta per gli acchiappasogni  fermatenda e per l’interminabile assortimento di piante grasse, mi ero ritrovata davanti un vecchio gigante rattoppato, silenzioso nel suo esistere e nel suo divenire. Ero soddisfatta. Non avrei sopportato uno di quei “library shop” stile museo delle cere.

Il silenzio stava assordando il mio già precario apparato uditivo quando notai un uomo all’interno del locale. Si stava arrovellando nel disperato tentativo di far ripartire un orologio a muro. Aveva un’ espressione rassegnata e pareva affaticato. Capii che la stanchezza non era causata soltanto dall’incapacità di aggiustare il “condottiero del tempo” ma anche da un dolore che lo aveva consumato dentro. Ne sapevo qualcosa. Certe storie di sofferenza le avverti sulla pelle e te le ritrovi negli occhi e sulle mani. Le ferite parlano di fragilità, di fallimenti, di impronunciabili angosce, di delusioni e disillusioni che scavano sui volti pertugi profondi. Ti trascinano nel loro vortice infinito, verso una meta che mai raggiungerai e ti segnano per sempre. Quell’uomo ricordava mio padre. Un legionario reo confesso di un passato di violenze e notti buie. Viaggiatore obbligato, scappò dalla sua Sicilia e da se stesso ed attraversò conflitti, deserti di sabbia e di vite. Di quest’uomo mi colpì la sua pacata arrendevolezza. A differenza di mio padre, temerario guerriero di anime, instancabile paladino di una giustizia disarmata, il nonnino che appariva al di là del vetro  aveva smesso da tempo di combattere contro i mulini a vento per poi ripiegare in se stesso. Tappa forzata di quel lungo giro di giostre che è la vita. Una lunghissima barba bianca compensava la calvizie che rendeva lucida la testa sproporzionata. E mentre il pensiero di quello strano personaggio si inerpicava per i corridoi della mente, mi vide. Mi fece cenno di entrare. Non esitai. Mi aveva colto in flagrante e non potevo ignorare, ora, il suo invito. Mi addentrai così in quel mondo misterioso senza immaginare che quell’incontro avrebbe cambiato la mia vita.

“Buongiorno signorinetta, mi chiamo David e sono il proprietario di quest’ammasso di mattoni e calce, nonché il governatore dei sogni e delle ore. Stavo appunto sistemando il mio amico di viaggio ma  non trovo i miei occhiali e non riesco ad allineare le lancette. Mi darebbe una mano?” Guardai perplessa quell’uomo e il suo orologio. “Mi scusi, ma quali lancette? Non vedo nulla” risposi. Se c’erano state delle lancette, probabilmente ora si stavano godendo la tanto agognata pensione  in qualche angolo recondito di quel negozio. Governatore dei sogni. Un titolo importante per un libraio. Una laurea in scienze della vita. “Lei si starà chiedendo cosa ci fa  un orologio da muro formato famiglia  in mezzo a ogni genere di libro. Io colleziono sogni e poi li regalo. L’orologio serve per quantificare il tempo necessario all’uomo per leggere il libro scelto”. Lo fissai perplessa. Ma dov’ero finita? Colleziona sogni…benvenuto nel club! Aveva scoperto la famigerata acqua calda. “Non si meravigli, i sogni esistono e si deve trovare il modo per raggiungerli. Serve poi l’ingrediente basilare per acchiapparli: la speranza. Senza quest’ingrediente  non possiamo portarli con noi e regalarli”. Habemus philosophum. Il mio stupore iniziale si stava trasformando in un’incalzante perplessità. “Non so proprio cosa sia passato per la testa dei miei amici quando mi hanno suggerito di venire qui. E men che meno a me che ho seguito alla lettera le loro istruzioni. Mi scusi per il disturbo e la curiosità. Devo proprio andare”. Mentre mi avvicinavo alla porta per uscire da quel quadro surrealista, una frase mi impietrì: “Si deve perdonare. Solo in questo modo potrà trovare pace”. Mi voltai, i miei occhi lo scrutarono e si tuffarono nei suoi. Per un istante che parve interminabile  riconobbi il disegno del destino. Quell’uomo mi attendeva. “Si avvicini, sediamoci. Noi due oggi, affronteremo un bel viaggio”.

Era estate e il caldo  proseguiva il suo inarrestabile delirio di onnipotenza. Nella giungla  vincevano la sete, il prurito causato dalle punture delle famigerate killer volanti e la paura d’essere scoperti. Il tredicesimo battaglione corpo a corpo, capeggiato da un non più giovane tenente, cercava di raggiungere l’avamposto di controllo. Dopo lunghi appostamenti e ricerche affannose, scontri violenti e mancanza di viveri, erano riusciti a carpire, dai vari collegamenti umani che vivevano nei diversi villaggi sparsi qua e là, le coordinate delle truppe vietnamite. Dovevano rientrare e comunicarlo. Ma l’afa e il caldo, la sete e la stanchezza, avevano annebbiato la vista dei soldati e non era facile districarsi  all’interno di quelle conifere. Palme, mangrovie, liane e bambù  impedivano il libero passaggio. Dovevano affrettarsi, non avrebbero resistito un’altra notte. Il tenente temeva che i legionari feriti  non arrivassero a destinazione. “Muoviamoci, dobbiamo arrivare prima che cali la notte”. Attinsero agli ultimi cromosomi, cercando di prelevare un po’ di coraggio e di forza e aumentarono il ritmo del passo. Arrivarono all’accampamento poco prima che il sole facesse il suo inchino e si ritirasse negli alloggi. Non videro subito i segni della morte. La stanchezza aveva fatto crescere nei loro occhi  nuvole di nebbia, distorcendo la realtà circostante: corpi mutilati e bruciati  privi delle teste e dei piedi. Uno scempio di vite umane. Un repulisti di proporzioni apocalittiche. Tutto intorno a loro  bruciava. La vita di centinaia di soldati e civili  sparì in rivoli di fumo e morte. Il dolore scavava l’anima, le grida divennero una nenia di latrati, gli incubi presero il sopravvento sui sogni e il respiro divenne un’eco lontana. Nessuno era sopravvissuto. Il ragazzo che era stato affidato a mio padre  non aveva ancora l’esperienza necessaria per addentrarsi nella giungla con il gruppo di ricognizione. Per tale motivo  era rimasto alla base. Lo trovarono disteso a terra  in posizione supina. Gli avevano legato mani e piedi e sventrato il petto. Mio padre morì quel giorno. Al suo posto  emerse un uomo freddo, con un implacabile desiderio di vendetta che lo cambiò per sempre. Il peso della colpa  albeggiava in ogni suo risveglio. Avrebbe dovuto comunicare alla famiglia del ragazzo  la sua scomparsa. Si sentiva responsabile. Non lo aveva portato con sé, non lo aveva protetto. In poche settimane organizzarono spedizioni punitive, uccisero soldati, donne e bambini che avevano come unica colpa quella d’essere stati spettatori involontari  di un’esibizione dell’orrore. Sterminarono interi villaggi. E solo dopo aver eliminato tutti i colpevoli del genocidio dei compagni di battaglia, si congedò dalla Legione straniera. Non avrei mai saputo nulla di quel terribile passato, se non fosse stato per una fotografia trofeo, trovata rovistando fra i cimeli di famiglia. Immortalava un gruppo di soldati, capeggiati da un uomo con fare deciso e spietato che  in mano sollevava una testa mozzata. Quell’uomo era mio padre. Non riuscii mai più a guardarlo in faccia. Non avevo timore di affrontare i suoi occhi. Erano i suoi incubi a incutermi paura e  l’immagine dell’uomo giusto, del mito che in guerra salvava vite, si sgretolo’. Quel suo indiscutibile codice d’onore, praticato come vangelo con fede incrollabile ed ostinato orgoglio, non aveva più nessun valore. Ero convinta d’aver vissuto imperturbata per anni all’ombra di una grande quercia, ed invece mi risvegliai disarmata sotto un cielo plumbeo, senza riparo.

Non parlammo. Lui capì d’avermi perso e non fece nulla per trattenermi; si sentiva in colpa e la voleva espiare. Dal canto mio  non cercai mai di riappacificarmi. Il giorno successivo a quello della tanto agognata laurea, mi trasferii all’estero. Qualche anno dopo, si ammalò ed io  non tornai neppure in quell’occasione. Mandai soltanto un biglietto, non sapevo se di consolazione o rivendicazione. Poche parole: “Non c’è vita che non valga la pena d’essere vissuta”. A quel messaggio seguì il suo nulla ma io non ne risentii. Avevo ormai deciso di relegare il suo passato in un angolo recondito della mente e, con esso, anche il mio desiderio d’avere un padre. Raggiunse l’alto dei cieli o plausibilmente il luogo dell’espiazione, un giorno indefinito di settembre. Da allora sono alla ricerca di me stessa.

“Deve perdonarsi. Non se ne faccia una colpa. Non serve. Lei  era incapace di materializzare in termini di consapevolezza un mondo in continua lotta. Non poteva conoscere ed accettare leggi talmente disumane da estirpare ogni atomo di misericordia. C’è sempre un disegno divino ed un motivo per ogni avvenimento, anche il più doloroso da accettare.” Lo fissai con la stessa lucidità e freddezza che alberga l’intimo dei più accaniti serial killer. “La filosofia zen non mi ha mai appassionata e neppure convinta. Non posso perdonare nessuno”.

“Tenga, lo prenda. Questo libro la stava aspettando. Ora  girerò le lancette dell’orologio e lei avrà tempo fino alla seconda luna  per finirlo. Ma non si aspetti grandi avventure spaziali o cavalieri senza macchia. Pagina dopo pagina, ritroverà il senso del suo vagare.” Di nuovo la pazzia prese il sopravvento sul libraio. La seconda luna, le lancette inesistenti. Questo povero vecchietto sembrava un personaggio calviniano. Lo vedevo bene accanto al Cavaliere inesistente o reduce compagno del Visconte dimezzato. Qualcosa mi diceva che avrei fatto meglio a restarmene a letto, aggrappata all’ultimo respiro di sonno. Invece ero lì, ad interloquire con un mentecatto. Presi il libro solo per disperazione. Volevo liberarmi da quell’assurdo individuo, uscire a gambe levate e andare a bere un aperitivo con i miei amici. Mi avrebbero sentita: Spendere gli ultimi istanti di vacanza a parlare con un uomo privo di barlume; che la finisse di proferire pillole di saggezza. Presi il libro, guardai il risvolto della copertina in cerca del prezzo ma non lo vidi. Lasciai una banconota da venti sul tavolo e me ne andai. L’uomo azionò l’orologio che fece due rintocchi e le lancette, come per magia, apparvero. Tornai nel mondo che avevo lasciato.

Avanzai con passo spedito lungo il vicolo che separava quel posto irreale, dalla città. Il mio pensiero ritornava alle parole pronunciate da quell’uomo insolito. “Deve perdonarsi”. Cosa ne sapeva quel racimolo di filosofie, della mia vita. E cosa intendeva quando asseriva che il libro mi aspettava? Se credeva di incantarmi con la sua sapienza da santone, si sbagliava alla grande. Non ero disposta a farmi prendere per i fondelli. Non dal primo che passa. Alterata da quell’incontro, rigiravo il libro prima in una mano e poi nell’altra. Se non fosse stato per la curiosità che ogni donna eredita alla nascita, avrei gettato quell’ammasso di pagine ingiallite nel primo bidone disponibile. Ma una forza misteriosa  si stava impossessando delle mie capacità cognitive e aprirlo fu l’unica cosa che in quel momento  ritenessi degna di logica. Quello che lessi fin dalle prime pagine, mi fece trasalire.

“Cara Simò, con molta probabilità, leggerai questa lettera dopo il mio imminente ultimo traguardo. Avrei voluto iniziarla anni fa, quando in silenzio te ne sei andata. Vederti uscire di casa e dalla mia vita, è stato l’unico dolore che non ho saputo controllare e affrontare. Un vuoto mi ha risucchiato l’anima. Tu, che eri la mia ragione d’essere, avevi deciso di dimenticarmi. Leggevo disprezzo nei tuoi occhi. Questo, più della delusione che ne seguiva, mi immobilizzò. La conoscevo quella sensazione. Non ho mai voluto che tu ne provassi gli effetti. Mentre varcavi l’uscio, portando via con mezza casa anche il mio bisogno di vivere, sapevo che non ti avrei più rivista. E così è stato. Non te ne do una colpa. Non eri tu ad andartene ma io ad averti spinto lontana. Non voglio né posso abbarbicarmi su insensate giustificazioni. Ciò che hai visto in quella foto è esattamente quello che ho fatto. Ti scrivo solo per aiutarti a non diventare come me. A non lasciare che quell’odio  renda impossibile il ritorno a casa. Ci si perde con estrema facilità, ma trovarsi è ancora più arduo. Avevano ammazzato tutti i nostri amici. Un ragazzo ancora troppo giovane  non avrebbe avuto la possibilità di rivedere la propria famiglia, di conoscere una brava ragazza, di sposarsi e di avere figli. Quei soldati che per trent’anni condividevano le albe ed i tramonti con me in quei posti così lontani da Dio, erano stati la mia famiglia. Con loro avevo affrontato la disperazione, la paura, la gioia, il dolore, la speranza. Il prolungamento del mio essere ancora nel mondo. E nella legione vige solo un codice, quello della vendetta. Non è umano, hai ragione. La vita è un dono e non siamo nati per giustiziare ma per trasformare quel dono in attimi di vita ridonata. Non ero pronto ad affrontare una simile carneficina. Di vite, di sentimenti, di volti, di respiri. L’uomo che ero  morì vittima come loro, in quel desolato angolo del Vietnam. Mai come allora compresi quanta sofferenza genera la morte. Di quanto acredine si è capaci. Nasce con noi. Nessuno è escluso, solo Dio. Ma Dio non c’era in Vietnam. Ho perso la fede, o forse non l’ho mai voluta realmente. Ogni essere vivente ucciso aumentava il mio odio. Non riuscivo a sopire la sensazione di impotenza che mi aveva colto quella notte. E questa implacabile sete di vendetta ha finito per distruggere la mia vita e la vita delle persone che mi erano accanto, compresa la tua e quella della mamma che  per anni ha dovuto combattere contro i miei mostri. Non commettere il mio stesso errore. Non permettere al rancore che serbi per me di annientare il buono che possiedi. Non perderti. Odiarmi  non farà resuscitare nessuno e non servirà a riportare pace e colore  sui volti delle persone che hanno perso la vita. La morte fisica è nulla in confronto a quella dell’anima. Seppure per la prima non esista nessun antidoto o elisir che la faccia di nuovo splendere, è sempre preferibile alla mancanza di redenzione e futuro che dovrà sopportare la seconda. Quando perdi l’anima, la tua morte diventa eterna. Non hai riscatto. Non hai pace. Ma rammenta: esiste sempre una Misericordia divina ed è a quella, in quest’ultimo periodo, che mi voglio aggrappare. Ho firmato un armistizio con me stesso. Non mi perdono per ciò che ho commesso, ma confido nella divina provvidenza. Ho chiesto a Dio un po’ di quella pietà che né io, né l’odio della guerra abbiamo avuto. Mi regalo un ultimo periodo di tregua. Tu, invece, fa’ in modo che quell’armistizio non abbia motivo d’esistere. Non riuscirai a comprendere le mie ragioni, non ti biasimo. Posso solo dirti che i conflitti  trasformano anche il cuore più docile. Ti penetrano nelle ossa come il gelo d’inverno e non ti permettono di vivere. Non ascoltarli. La voce del livore  è capace di ammaliare anche l’uomo più risoluto, ma stai attenta: ingannò Ulisse e noi siamo suoi eredi in carne e sentimenti. Quando tua madre, incredula, mi disse che non eri il sintomo di una menopausa alle porte, ma il frutto del nostro amore, per un attimo mi parve che il cuore mi scoppiasse nel petto. Avevo co-generato un piccolo miracolo. Mi era stata data una seconda possibilità e non l’avrei mancata. Ti ho protetto dal mio passato perché ne avevo paura. Temevo che potesse di nuovo ributtarmi nell’apatia del non vivere,  che potesse risvegliare in me il dolore e l’incapacità di continuare la vita. Tu eri il mio unico gesto di misericordia. Sei nata attraverso un parto difficile, rischiando di morire. Il Dio che per anni, avevo relegato nel mio ostinato orgoglio, andava rispolverato. Tu sei stata la mia cura. Il mio ritorno a casa. Prima di raggiungere tua madre e prima di chiudere il capitolo che hanno scritto per me, voglio compiere un altro piccolo miracolo. Non lo faccio per acquistare punti di merito o per salire in classifica, così da scontare meno ergastoli possibili nel Purgatorio. E nemmeno per timore che tua madre, una volta raggiunta, possa assordarmi con le sue infinite prediche. Voglio solo che tu sia felice. E che possa, un giorno, perdonare a te stessa  d’aver serbato nel cuore lo stesso odio che provai io. Non ti crucciare per me. Non mi sono sentito abbandonato. Ho sperimentato quella sensazione molte volte, ma nessuna per colpa tua. Lasciati amare ed ama immensamente. In ogni istante. Anche se causerà dolore, tu ama. E vivila questa vita, cercala. Nelle particelle degli atomi che studi e agli angoli infiniti dello spazio che albergano in te. Ed accettati per quello che sei, per i successi che avrai o i fallimenti che non ti aspetterai. E se a volte cadrai, non mollare. Rialzati sempre, anche se può costare fatica. E non perdere mai la speranza. Non lasciare che la patina dell’indifferenza  cambi la sua direzione. Non permettere che l’apatia del mondo  ti isoli. Buttati. Viviti. Meravigliati. La gioia che riuscirai a provare sarà sempre proporzionale alla capacità di stupirti. Custodiscila. E non fermarti mai lungo il cammino. Ovunque ti porti, sii seminatrice di inizi. Spero che un giorno riuscirai a perdonarmi. E a perdonare a te stessa d’averci perso entrambi.

Ti tengo d’occhio! Splendi più che puoi.

Papà

P.S. Avevi ragione, non c’è vita che non valga la pena di vivere.”

Piansi tutto il tempo, pagina dopo pagina. Avevo finalmente compreso. Al mio biglietto  non seguì il suo nulla, ma queste pagine. Non fece in tempo a spedirlo. Per quale ragione e come il libraio lo avesse avuto, non lo sapevo. Sfogliai altre pagine ma non trovai nulla. Erano vuote. Forse avrebbe voluto scriverne ancora, magari ogni giorno, fino a che gli fosse stato concesso. Ma evidentemente  non ne ebbe il tempo. Era riuscito a trovare pace in se stesso, a perdonare un’intera esistenza. Ed io rimasi il suo primo ed ultimo pensiero.

Deposi il libro su di una panchina e mi sedetti. Tremavo. Avevo odiato mio padre con tutta me stessa. Solo oggi capivo che quell’odio mi aveva cambiata, mi aveva raggelato l’esistenza. E mi aveva allontanato dalla mia famiglia e da me stessa. La donna seduta su quell’accozzaglia di ferro, sperduta nei propri pensieri e alla deriva di sofferenze pregresse, non aveva mai vissuto appieno la propria vita. Sempre in perenne movimento, pellegrina errante in un mondo di idee, alla ricerca di quel senso del vivere che le faceva sentire la mancanza di un indefinito lontano. Accovacciata sulle misere certezze che man mano emergevano, proiettata nel futuro senza riuscire a vivere l’oggi, sedeva inerme, con un libro appoggiato accanto alla sua ombra. Dov’era finita quella bambina  tutta tenerezza, prodiga di sorrisi e sogni? Persa in quella fotografia d’odio e sofferenza, come il padre. Aveva sciolto i nodi della matassa. La vita nella sua durezza permette a volte di perdersi. Quando non è vissuta nella profondità del suo esistere, lascia che ognuno perisca, per poi rinascere. Non è forse nel buio più assoluto che scorgiamo nuove stelle? Senza la mancanza di luce, non avremmo mai capito l’importanza di un’origine.

Mi alzai, presi il libro e corsi al negozio. Quando arrivai, entrai senza neppure pensarci. Mi scaraventai dentro con trepidazione. Lo dovevo sapere. Chi era quel libraio? Mi guardai attorno ma non vidi nessuno. Poi  d’un tratto una donna  uscì dal retro di una stanza. “Devo parlare con il libraio”, proferii. “Quale libraio signorina? Questo negozio è chiuso da anni e prima era il magazzino di un poveraccio che soffriva di quella sindrome strana, come si chiama quell’assurdità di accumulare ogni tipo di oggetto? Pensi, aveva dovuto affittare questo magazzino perché in casa, a furia di accumulare, non c’era spazio neppure per viverci. Quel poveretto dormiva e mangiava qui. E’ morto qualche anno fa. I suoi eredi  hanno fatto sparire ogni cosa e venduto questo locale alla nostra congregazione. Noi siamo le ancelle della carità.”
Rimasi sbigottita ed incredula. “Mi scusi signora, ma io prima…vede… mio padre era un legionario…lo odiavo e mi ero persa…il libraio girava le lancette che prima erano invisibili…insomma, devo consegnare questo libro”. La paladina della carità mi guardò per un tempo indefinito con due occhi stralunati e per nulla caritatevoli, poi alzò il tono della voce che fino ad allora  era stato calmo ed accogliente e mi scaraventò addosso l’ipotesi che potevo aver bevuto o fumato qualche droga il cui effetto produceva le allucinazioni che presumibilmente avevo avuto e che, se non uscivo subito con il mio libro invisibile, avrebbe chiamato la guardia reale. Non volevo di certo contraddire quella povera nonnina indifesa dall’incredibile voce da soprano. Alzai i tacchi che non portavo ed uscii con la stessa premura che avevo avuto quando ero entrata.

Una volta fuori dalle sgrinfie di quella pseudo promotrice della carità, mi accorsi di non avere il libro. Dove lo avevo lasciato? Forse lo avevo perso per strada, nella fretta di scappare dalla furia vendicatrice che avevo incontrato in quel negozio, o meglio, magazzino. Oppure, il tempo a disposizione era terminato e la seconda luna stava facendo capolino fra gli ultimi fotogrammi di una giornata memorabile. Non importava. Scoppiai in una risata liberatoria ed una pace iniziò ad albeggiare in me. Quante occasioni di vita mi ero lasciata scappare. Quanto rancore avevo covato. Non avevo mai permesso all’amore di trovarmi, troppo delusa da un uomo per poterne amare un altro. Ero riuscita a diventare una ricercatrice accademica, ma non ero capace di scorgere l’immensità che ci circonda. Avevo la presunzione d’essere l’unica a detenere la verità della vita e non mi ero mai accorta che non la conoscevo affatto.

Queste pagine di diario, forse mai davvero esistito, mi hanno riportato a te. Ti ho perdonato. E condonando il tuo passato, ho perdonato anche me stessa. Ora conosco la strada e come percorrerla.

Papà, sei stato il mio primo miracolo.

Simona Guarino