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Ti sto sognando. Anche stanotte, hai fatto capolino tra i pensieri ed ora, sei nei miei riflessi più profondi. L’immagine che spesso accompagna i miei sogni, è la mia nascita, così come me l’hai sempre raccontata. “Questo parto non s’ha da fare”, disse il ginecologo manzoniano quando ti comunicò il lieto evento. Non c‘erano dubbi. Io non ero la tua menopausa. Tu, saresti stata la mia “spinta verso la vita”. A ripensarci, mamma, mi viene ancora da sorridere. Strano come il nostro destino, sia similare a quello di Renzo e Lucia nei promessi sposi. Anche a loro, come a noi, era stato vietato d’amare. Nulla può impedire a due cuori, di battere all’unisono. Ne sappiamo qualcosa. Noi, particelle di convinzione in miniatura, abbiamo deciso di correre il rischio e senza pensarci più di tanto, perché, il si alla vita, non si nega. Le sfide non ci hanno mai spaventato. In questa visione onirica, i ricordi si intensificano ed anche la nostra forza aumenta. Vorrei continuare a custodirti in sogno ma, proprio sul punto di abbracciarci, un terribile suono penetra i nostri vissuti “orfetici”. Il generale ci richiama all’ordine. Quella sveglia benedetta, ha iniziato il suo concerto. Apro gli occhi. Non riesco a capire dove sono, se sono già nata oppure se quel fatidico parto che non era da fare, non si è ancora compiuto. In lontananza sento il cinguettio dei pochi superstiti pennuti. Un canto ovattato, quasi un sussurro. Mi pizzico la faccia. Credo che alla fine, il parto c’è stato. Ci sono e le guance lo confermano. Finalmente apro le fessure di cui mi hanno dotata e gli occhi, si abituano alla penombra. La luna stanotte era una piccola virgola nel cielo. Luminosa. Tenace. Vorrei rivederla prima che il “grande re” illumini gli angoli della terra ma, non oso spostare le tendine della finestra per accertarlo. Mi alzo, ho deciso. Metto i piedi fuori dal letto indossando il sorriso più bello. È quello che avresti voluto ed anche quello che mi hai insegnato. Oltre alla tua smoderata voglia di vivere, possedevi un’insostituibile forza d’animo. Non ti limitavi a scorgere il bicchiere mezzo pieno, no, tu riuscivi a vedere oltre. Arrivavi a materializzare, sul tavolo della speranza, la bottiglia intera. Eri un mito. Credo di assomigliarti un po’, almeno in questo. Dicevo, mi alzo e senza fingere d’esserne entusiasta, indosso il sorriso più bello, butto i piedi fuori dal letto, affronto il buio della stanza e inizio a muovermi in quel marasma di vita che mi circonda. E poi? Semplice, mi manchi. Da quando hai raggiunto i “piani alti”, non amo svegliarmi. Con gli occhi chiusi, ho ancora il potere di immaginarti vicina. Ma se li apro, vengo spodestata da tale privilegio, ti perdo e non mi sento a casa.

Attraverso il corridoio, così come attraverso la vita, senza occhiali per aumentarne la nitidezza e senza ciabatte per isolare il freddo che porto dentro dal gelido che sento fuori. La prima dote da coltivare, una volta scaraventate le ossa fuori dal letto, è il coraggio. La chiamo dote perché attitudine sa troppo di antico. “Le ciabatte! Non hai freddo?” e “metti gli occhiali che non ci vedi”. La password e l’username del mio vagare. Dopo la tua dipartita, ho capito che invertivamo sempre la password. Erano gli occhiali, l’elemento cardine per partire e non le ciabatte. Puoi mettere tutte le calzature di questo mondo, senza occhi per vedere, non arriverai mai a destinazione.

Entro in bagno e apro il rubinetto. Mentre aspetto che l’acqua vinca la sua battaglia giornaliera e, diventi calda, mi appoggio al muro e aspetto che tu parli. Lo so già cosa dirai, “non tenerla troppo aperta, ci costerà un capitale!”. Te lo dicevo che la prima dote, appena svegli, è il coraggio. Lavarsi il viso con acqua fredda, alle sei di mattina, in piena rivisitazione glaciale del mondo, richiede solo coraggio. Ed anche se ne avessi da vendere, credo che rinuncerei al guadagno. Da questo, ne scaturisce la seconda dote della vita: la forza. Rileggendo le nostre avventure terrestri, direi che la nostra prima dote è stata la forza. Nel nascere alla luce e nel rimanerci. Ma non distinguiamoci sempre. Dicevo, la seconda dote è la forza. Nel contrariarti soprattutto. Non credere che mi sia sempre piaciuto. Non ci provavo gusto come dicevi. A volte era un supplizio. Tu, radicata nelle tue millenarie convinzioni ed io abbarbicata sui baobab delle alternative, pur di farti complice della mia parte visiva del mondo. Niente. Tu rimanevi fossile preistorico ed io macaco “baobabbiano” simpatizzante.

L’acqua calda è giunta a destinazione. Nemmeno oggi il freddo ha vinto su di lei. E nemmeno oggi, vincerà su di noi. Mi lavo la faccia, devo togliere gli ultimi resti della notte.

Mi accomodo in camera, non mi voglio truccare. Tu lo dicevi sempre: “inutile coprire l’ imperfetto che ti rende unica. Il decorso del tempo, non può arrestare il proprio cammino. Sarebbe come dire ad un albero, ormai ingobbito, di ritornare germoglio. Perderebbe il frutto della vita, la raccolta dell’uomo e il viversi di entrambi”. Con il passare degli anni, ho carpito l’importanza di queste parole. È nell’azione del mutare che arriviamo a comprendere il vero significato delle cose.

Sabotato il piano make-up, torno in camera. Devo vestirmi. Non vedo appoggiati gli abiti sullo schienale della sedia. Ah già! Tu non ci sei, toccava a me occuparmene. Da quando hai raggiunto le alte sfere, ti sei montata un po’ la testa. Non collabori proprio più. Non ti lamentare se le calze che metterò, non andranno in pandan con la gonna. E non mi dire che sono troppo scollata o troppo esuberante. Ci dovevi pensare prima, invece di salire sul treno della notte.

Dovrai fartene una ragione ed abituarti a vedermi con il blu, il giallo, il nero, il fucsia e il rosso se serve. E non sempre nello stesso ordine. Cerco nell’armadio. Solo oggi mi accorgo di quanta notte ci sia anche in casa. Tu te ne sei andata via alle sei. Probabilmente il biglietto per l’ora dopo, sarebbe costato molto di più. D’altra parte, con la luce, diventa tutto più costoso. Accendi solo per un attimo, il risveglio dei sensi, e tutto appare sotto un’ottica diversa. Resti imbrigliato tra il nuovo entusiasmo per la vita ( è solo attraverso il bagliore dell’infinito se sei riuscita a carpirne il senso) e il rincaro della materia prima che ti ha risvegliato dal buio dell’inverno.

Continuo a sentire troppo silenzio. Com’è possibile. Il contadino del terreno di fronte casa, a quest’ora, avrebbe già dovuto mobilitare i “reduci di guerra”, così li chiamavi tu. Un ammasso di ferraglia che, tra una vampata di cherosene e un’ inebriante profumo d’olio, si muove a rallenty , sollevando zolle chilometriche di terra. Mi decido, scosto le tendine della finestra e guardo fuori. Il buio più assoluto avvolge il mondo. Ma che ore sono? Guardo la sveglia sul comodino. Indicano le tre! Tutto attorno a me, sospira ancora di sogni. “Te lo avevo detto di mettere gli occhiali. Hai il solito vizio di puntare la sveglia senza indossarli. E sbagli ora”, inutile che ora taci, li sento i tuoi commenti anche se viviamo in stanze d’universi differenti. Ok, te ne do atto, ho leggermente anticipato la levata. Possono avere tutti una svista, specie quelli sprovvisti d’occhiali. E poi, anche se è presto, tutte quelle macchine parcheggiate sotto casa, dove sono sparite? Non ce n’è l’ombra. Non dirmi che è domenica. Ma certo! Alla domenica mattina, le automobili non ci sono. Reduci da sabati interminabili, dove per arrestarne la corsa, si aspetta il mattino, restano a sonnecchiare nei garage fino al pomeriggio inoltrato. Me lo potevi suggerire! Da quando hai deciso di raggiungere il papà, non fai più gioco di squadra. Dovresti saperlo che non ho mai avuto il fosforo necessario per ricordarmi tutto. Colpa tua, il pesce era un cibo da snob. “L’uomo è carnivoro e noi siamo carnivori di carne e non di pinne”. Il tuo ragionamento era logico.

Ritorniamo a letto. Cosa pretendi che faccia? Non vorrai che mi metta in cammino per il mondo, alle tre del mattino. E per andare dove? Io una meta, la vorrei raggiungere, certo, ma dalle otto in poi. Almeno la domenica. E poi scusa, non affermarvi sempre che dormire poco, annebbia la vista, appesantisce la mente e ci fa invecchiare alla svelta? La mia vista ha già la residenza nel regno delle nebbie, la mente ha superato il suo peso forma e in fatto di vecchiaia, beh, scusa, ma ci vorrei arrivare a gradi. Un anno ogni venti per esempio.

Alzo il piumone, ributto le ossa con tutto il pellame, comodamente adagiato nel felpato del pigiama dentro il letto e spengo la lampada. Non mi ero nemmeno accorta d’averla accesa. Sarai stata tu. Poi non dire che sono solo io, ad arricchire le compagnie che gestiscono il terzo dono: la luce. A proposito, avevi ragione. Non c’è occhiale che tenga. Quando la luce invade il cuore, riesce ad arrivare al centro della vita. E la abbaglia. Non puoi evitarlo. Non devi evitarlo. Solo accettare che quell’abbaglio, per quanto potente, ti cambi dentro. No che non li perdi i decimi. Anzi. Se ti lasci abitare da quell’immenso, se gli permetti di scavare all’interno delle tue paure, delle tue reticenze, puoi arrivare a vedere la vita senza ostacoli. La luce acceca egli occhi senza penetrarli, solo quando la patina dell’indifferenza, del non senso, dell’apatia, avvolge l’intera anima. Ma se, custodiamo in noi la meraviglia, lo stupore del giorno, l’incanto e il risveglio del mondo, l’amore per l’uomo, l’umiltà del cuore, la forza dei sogni e la speranza nella fede, allora, quella luce, può dissipare ogni notte e rendere il buio, anche il più assoluto, sorgente di rinascita.

Rimetto la sveglia, senza occhiali, chissà se questa volta intonerà l’adunata ad un’ora più magnanima.

Accosto la guancia al cuscino ed attendo che la tua mano, mi accarezzi i capelli.

Chiudo gli occhi. Ti sento. Sei accanto a me. Mi sfiori la testa, mi baci la fronte.

Sono di nuovo a casa.

Simona Guarino