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Ore sei. La sveglia polifonica, mi richiama già all’ordine. E subito, un velo di malinconia, fa tornare alla mente il suono lontano di quel campanile che dolcemente, risvegliava le mattine della mia infanzia. “Non rimuginare la preistoria, goditi la tecnologia che il quotidiano ti presenta e proiettati verso quel futuro, non troppo lontano, dove ammirerai innovazioni ancora più strabilianti”.

Mi alzo, nella presunzione di ritrovarmi, ancora una volta, attecchita alla speranza che questo sogno, termini alla svelta. La tecnologia di cui ci vantiamo, non mi si addice. Non riesco a concepirla e forse, neppure la voglio. Se ci penso, i brividi percorrono in superficie la pelle mentre, sotto gli strati del mio esistere, albeggia la sensazione reale di quella perdita di senso che l’essere troppo futuristica, apporta. Noi che, alla mattina ci si svegliava con il canto del gallo o tutt’al più, con il vociare di quei vecchi marchingegni a campana, oggi ci alziamo al suono di sveglie tecnologiche che proiettano addirittura l’ora sulla parete della camera. E si parte. Ci “buttiamo” nel mondo senza tregua. Non serve neppure che l’alba faccia il suo ingresso, regalandoci le sfumature colorate del nuovo giorno. La moltitudine di lampadine a led, rimpiazzano la luce del sole. Le insegne dei negozi ancora accese, i lampioni nelle strade e l’illuminazione dei telefonini, sostituiscono le nostre esigenze visive della giornata. Contemporaneo alle luci artificiali, segue il rumore del pianeta. Non il quieto risvegliarsi della natura, la melodia del primo canto quotidiano dei passeri rimasti ad affrontare l’inverno. Non lo stridere del vento mentre sbatte furtivo sulle ante di legno. No. Ad accogliere la nostra levata mattutina, sono le assordanti suonerie dei telefonini che fungono da sveglie, i rombi dei motori delle macchine già proiettate nella giungla meccanica, che l’uomo, è costretto ad attraversare ogni giorno. Per non parlare di quei piccoli infernali elettrodomestici che, in teoria, dovrebbero agevolare la vita: la macchina del caffè, il rasoio elettrico, lo scaldalatte, il bollitore, il condizionatore. La pentola sul fuoco, immagine di un tepore passato, è divenuta reperto archeologico. Appena svegli, siamo già sommersi da indubbie condizioni di pace. E il silenzio, quel luogo d’incontro indispensabile per carpire il senso della vita, dove è recluso? Nel confine che ognuno di noi non riesce più a visualizzare. Il vuoto che ci circonda, assordante battito di una realtà ideata ma non idealizzante, resta l’unico punto silente in un susseguirsi di rumori e parole. Te ne accorgi per strada o dentro le mura domestiche. Ovunque. Migliaia di persone indaffarate ad attraversare le vie della vita, aggrappate a quegli esseri a volte minuscoli, altre ingombranti, che sostituiscono perfino la necessità di un contatto umano. “Buongiorno signor Carlo, come sta? È da tempo che non ci incontriamo”. “Non mi parli di tempo per carità, l’applicazione sul mio telefonino, dice che oggi cadranno piogge abbondanti”. Mi sembra giusto. Che sia il telefonino, pardon, l’applicazione, a dirlo. Noi, dotati di occhi per alzare lo sguardo al cielo, non siamo in grado di constatare da soli, se è nuvoloso o soleggiato. E soprattutto non riusciamo a scorgere, nell’incontro con l’altro, ciò che conta realmente: la persona stessa. Ma l’assurdità, la trovi nei locali pubblici. Pausa pranzo con i colleghi. Ognuno occupa uno spazio limitato del tavolo, toglie la giacca e l’appende allo schienale della sedia. Dirige per un attimo l’attenzione al menù, scorgendo con modesto impegno i piatti del giorno. Il cameriere arriva e a volte, quasi senza accorgersene, si ordina la pietanza desiderata con inerzia o con scarso appetito. Di certo si consumerà il pranzo in fretta, perché la vita, non da tregua, ci aspetta. E se durante il pranzo, si abbozza al dialogo, lo si fa esclusivamente e contemporaneamente parlando e fissando lo schermo del nostro mezzo tecnologico. Come non consultare la casella di posta elettronica. Di vitale importanza. Inesorabile fa ricordare che abbiamo risposte da dare, preventivi da redigere, pubblicità da eliminare, contatti da controllare. Sicuramente non ci è dato pensare, almeno per il tempo di una pausa, all’importanza di avere di fronte persone e momenti da gustare. Questa scena viene replicata in ogni dove. E non è esagerato affermare che, la comunicazione umana, sta rientrando nella classifica delle specie estinte. Il nostro viverci dentro, è consentito solamente in pochi momenti della vita. Quando per esempio non ce la facciamo più e, per dono o per folgorazione, ci fermiamo a respirare. Ed è in quel preciso istante che ci accorgiamo d’aver vissuto poco intensamente, l’esistenza. Che cosa ci ha allontanati da noi stessi? Perché sentiamo una sensazione di incompiuto, di ardente desiderio di vivere diversamente, di cercare oltre il definito? Che cosa ci porta ad incamminarci verso quella mèta che sentiamo cardine e centro del nostro io? L’infinito. Il desiderio di ritrovarsi. Di conoscersi. Scegliersi. L’amore. Riflettendo sulle conseguenze che ci portano a cercare strade diverse in differenti luoghi, sono giunta alla conclusione che ognuno di noi, scappi da se stesso. Non tanto dall’essenza di ciò che è, ma, appunto per quello, fugge a causa della propria incapacità di guardarsi dentro. Ci addentriamo nel mondo, con l’unica consapevolezza presunta che abbiamo, quella d’essere nati. Se poi questo dono di vita, lo attribuiamo ad un immenso gesto d’amore, siamo già a buon punto. Ma non basta. Cresciamo nutrendo parti corporee che ci sosterranno lungo il cammino ma, il vero organo da nutrire, lo esiliamo dal nostro volere. E non ci accorgiamo che la strada che stiamo percorrendo, non sempre è la nostra, non sempre ci riporta a casa. Papa Wojtyla diceva: “Nasciamo anche attraverso una scelta, nasciamo allora dal di dentro, e di colpo, ma come pezzetto per pezzetto. Allora non tanto nasciamo, quanto piuttosto diveniamo. La nascita ha inizio da un’unione e a un’unione tende. In questo sta l’amore”. Persi al di fuori di noi stessi, non ci ritroviamo più. Quand’è stata l’ultima volta che vi siete fermati a guardare un tramonto? La mia molto tempo fa. E l’ultima volta che avete ammirato la bellezza della natura che vi circonda? Stupirsi. Questo ci manca. Meravigliarsi della brezza che accarezza la guancia, delle sfumature di colori che assume il cielo, del sorriso che si affaccia sul nostro viso, quando ci diamo la possibilità di scendere dalla montagna d’impegni sulla quale abbiamo costruito casa e, precipitiamo in cortile a giocare come bambini, coi nostri figli, che nel frattempo, sono cresciuti. La ricerca della vera gioia. Questo è il destino che ognuno di noi, porta con sé dalla nascita. Nasciamo da dentro, da un amore che si è fatto scelta, partenza e compagno di vita. Nasciamo da una scelta superiore ed interiore, fatta di forza e coraggio. Nasciamo perché l’infinito possa trascendere se stesso. E attraverso questa nascita, noi portiamo al mondo, il vero senso dell’esistere. Siamo fatti d’immenso ed è all’immenso che dobbiamo tendere. Non possiamo relegare parte di noi in un limitato vivere quotidiano. In un sopravvivere. Siamo chiamati a ritrovare il centro di ogni cosa. Per riuscire nell’impresa, è necessario avere il coraggio di trovare spazio, tempo e silenzio. Ascoltare, questo l’ingrediente base. Mi fermo, chiudo gli occhi, mi ascolto. Poi riapro gli occhi ed inizio a vivere. Ma devo saper ascoltare. I miei bisogni, i desideri reconditi, le passioni che mi abitano. Ascoltarmi per ripartire. E per costruire relazioni umane capaci di unire e colmare i vuoti esistenziali. Attraverso la conoscenza di noi stessi e il ritorno alle origini, siamo in grado di approcciarci alla vita e agli altri con gratitudine e forza d’animo. Dobbiamo essere costruttori di ponti, volti ad unire le due sponde dell’esistere, quella dell’amore che fa nascere e quella della fede che fa vivere. Fede nell’unico abbraccio che non ci ha mai lasciato. Fede nella parola che libera. Non importa in quale Dio, questa fede approdi. Non c’è fede che non germogli in amore. Abbandoniamo allora l’apatia che ci fa replicanti di vite non vissute. Accantoniamo quel senso di noia che afferra con avidità, i nostri giorni. Non siamo nati per vivere l’inerzia, isolati in un “io” egoistico che produce affetti solo per fini personali. Dobbiamo ricercare nuovi orizzonti, nuovi spiragli di vita e di senso. Appagarci d’infinito, permettendo a questi di colmare di significato la nostra esistenza.

In un incontro tenuto alla Pieve di Romena, Padre Ermes Ronchi, raccontando del suo nuovo libro “l’infinita pazienza di ricominciare”, diceva: “le parole più caratteristiche della mia fede, cominciano tutte con un piccolo prefisso, di due sole lettere, ri, sono quelle parole che stanno ad indicare: di nuovo, da capo, ancora, un’altra volta, sono le parole rinascita, riconciliazione, risurrezione, rimettere il debito, rinnovamento, la stessa parola religione, redenzione. Quella piccola sillaba lì che vuol dire, non ti devi arrendere”.
Ritrovarsi, ricercare, rimettere significato alla vita, riordinare, ritornare a sognare e a viversi. Questo prefisso, dovrebbe diventare la nostra bussola, compagna di viaggio, capace di ricondurci in porto.

La tecnologia e le applicazioni che ne derivano, devono creare i collegamenti che ci permettono di portare noi stessi agli altri, un prolungamento di speranza sparsa nel mondo. Attraverso la capacità che ci è stata data, di raggiungere luoghi inaccessibili e di migliorare il vissuto, dobbiamo essere forti nel gestire questo potenziale, per il bene di quel tessuto sociale che è parte integrante e complementare di tutto ciò che ci ha resi quello che siamo.

Non viviamo in superficie. Non lasciamoci svuotare. Facciamo di questo mondo, di noi stessi, un luogo da abitare, dove ognuno possa sentirsi parte ancorante dell’altro. Perdersi è il verbo che fa tendenza oggi.

Andiamo controcorrente. Riportiamoci a casa.

Simona Guarino