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Mi riscosse la voce del cameriere: “Signora, signora” mentre mi porgeva i fogli con i miei appunti finiti sul pavimento. Lo ringraziai sentendomi come svegliata da un profondo sonno ad occhi aperti. Intorno a me i clienti del Moak non erano più gli stessi di quando ero un’abitué. Seduta al mio tavolino ripensai ancora a noi due, un dono della vita, bellissimo ed inaspettato.

 

Ci scoprivamo incontro dopo incontro, parlandoci o cercandoci attraverso i messaggi che ci scambiavamo durante la giornata. Parlavamo tanto, ma soprattutto ci ritrovavamo a guardarci negli occhi e le parole non servivano più: attraverso gli sguardi ci dicevamo tutto.

Abbassavo gli occhi quando mi faceva un complimento, quando mi diceva “bella” e “irresistibile”, “intelligente”, “speciale”. E mi legavo sempre più. Davanti alle nostre bevande sorseggiate piano scoprivamo, volta dopo volta, le nostre parti più nascoste, i nostri desideri, le paure, i bisogni; emergevano le nostre affinità, da quelle caratteriali a quelle dei gusti per i cibi, fino a sorridere per essere nati sotto lo stesso segno. Seduti a parlare, ci sfioravamo le mani o le braccia: il Moak non era frequentato da persone che conoscevamo e potevamo permetterci qualche carezza e tenera effusione in pubblico. Mi piaceva guardarlo, mentre parlava di sé e mi descriveva i bei paesaggi visti e i luoghi visitati durante i viaggi.

Eravamo complici, mentre coglievo in lui la voglia di abbandonarsi, di stare con me, anche perché mi esprimeva la volontà di costruire qualcosa di solido e lasciarsi alle spalle la vita matrimoniale ormai logora che non aveva sino ad allora interrotto per Marco. Con Claudia continuavano le discussioni quotidiane e ne era esasperato. Tuttavia cercavano di evitare litigi davanti al figlio, che spesso però faceva domande specifiche: -”Papà, tu e mamma non vi volete più bene?”. Notava che i suoi genitori non passavano più del tempo insieme e i fine settimana trascorrevano per lui o solo con papà o solo con mamma. L’esperienza dei compagni di classe che avevano genitori separati gli aveva palesato la possibilità di una prossima separazione anche per i suoi.

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Io e Dario eravamo riusciti a organizzare e a spostare tutti gli impegni lavorativi e familiari, prenotando due giorni tutti per noi,  lontano da Napoli, ad Amsterdam!

 

– “E’ meravigliosa, più bella di quanto ricordassi”. dissi ad alta voce, nel centro di piazza Dam. Le luci profuse dai lunghi lampioni davano un tocco elegante alla piazza deserta che avevo già visitata oltre vent’anni prima con i miei genitori e le mie sorelle.

Adesso con Dario era tutto nuovo, tutto da scoprire. Dopo essere atterrati all’aeroporto di Schipol, ci eravamo recati in albergo per lasciare i bagagli. Dario aveva trovato un albergo molto carino, adiacente Vondelpark. Al momento della prenotazione mi aveva chiesto se prenotare una o due camere. Optai per la prima scelta.

La camera era spaziosa, con un letto grande e comodo, ampie tende che nascondevano un’enorme finestra che affacciava sul parco: i verdi e maestosi alberi abbracciavano i viali che attraversavano la città. Ammiravo il panorama, quando Dario mi cinse in un caldo abbraccio, dicendomi:

-“Vorrei che fosse sempre così per noi, avere un posto tutto nostro dove condividere ogni momento, e vivere nella nostra città alla luce del sole”. Ricambiai l’abbraccio, intenerita. Dopo esserci rinfrescati, uscimmo. Camminavamo nella notte, fra i tanti turisti che come noi giravano lenti ed incantati, chinandosi spesso sulla mappa della città. Le vetrine dei negozi senza saracinesche si facevano ammirare per quanto erano belle e ordinate.

Le piste ciclabili canalizzavano bene il traffico cittadino e noi, non abituati, rischiammo di essere investiti da un ciclista…Le risate di quel pericolo scampato riecheggiano ancora nel mio cuore.

 

Furono due giorni meravigliosi, in cui lasciammo tutto fuori e ci conoscemmo ancora di più, anche nelle rispettive abitudini quotidiane. La città aveva rapito la nostra attenzione, ammaliati com’eravamo dai palazzi, dai monumenti e dalla gentilezza degli abitanti, con cui parlavamo in inglese. Patatine, panini e hot dog furono i nostri pasti tra la visita al Van Gogh Museum e le passeggiate lungo i canali. Ogni tanto ci fermavamo a bere due birre in un coffee shop.

La malinconia del giorno della partenza era palpabile, per entrambi. Quasi smarriti, ci guardavamo, tenendoci per mano, discorrendo e ridendo per qualche battuta accompagnata dalla nostalgia che già provavamo l’uno dell’altro, pur stando ancora insieme.

-“Le parlerò subito, dirò a Claudia che non l’amo più…appena saremo rientrati” mi disse Dario, accarezzandomi il viso dolcemente col dorso della mano.

Di nuovo a Schipol, salutammo l’Olanda ripensando ai giorni gioiosi appena trascorsi e vissuti intensamente che, pensai allora, ci avrebbero cambiato il futuro: Dario mi confidò di aver vissuto un’atmosfera magica e incantata, e aveva percepito noi due molto più che complici, parte l’uno dell’altro.

°°°

Rientrati da Amsterdam però molte cose cambiarono. Erano passati tre mesi da quei due giorni speciali ed i nostri incontri non si riducevano più a due a settimana; ora ci vedevamo tutte le volte che era possibile.

– “Gliel’ho detto che presto vado via, ieri sera ho parlato con Claudia” disse Dario, sorseggiando il consueto caffè macchiato. Mi sentii orgogliosa di lui, dell’amore che mi dimostrava. Proseguì:

-“Lo dirò a Marco questa sera” e mi chiese di incoraggiarlo, di stargli vicino. Uscimmo dal Moak e andammo a casa nostra.

Sì, avevamo una casa nostra! Mi aveva convinto ad andare a vivere insieme, ed avevamo affittato una casa che risistemammo insieme. I lavori erano terminati e le pareti ancora avevano l’odore acre tipico della pittura fresca. Se ne era occupato Dario, sistemando parti di intonaco e pitturando. Aveva poi girato per i negozi di arredamenti per scegliere i mobili e arredare il terrazzino del portico all’ingresso.

Non lontano dal centro, con entrata indipendente, la casa aveva un piccolo giardino, già adornato di piante e fiori colorati e profumatissimi. Mancavano solo un tavolinetto e due poltroncine e sarebbe stato perfetto per trascorrerci le serate in relax, durante la bella stagione. Avevamo voglia di lasciarci andare all’amore che provavamo, proprio come era accaduto per la prima volta ad Amsterdam.

Quella sera Dario tornò a casa per spiegare al figlio i motivi che l’avrebbero portato a non vivere più sotto lo stesso tetto. Volevamo che Marco potesse trascorrere i fine settimana con noi e nell’appartamentino c’era una stanza non ancora arredata pensata appositamente per lui; ritenevamo importante che il bambino scegliesse tappezzeria e mobilio per sentirsi maggiormente a proprio agio.

Dopo mezzanotte, ricevetti un messaggio:

-“Ho parlato con Marco, è dura, ti chiamo domani”. Trasalii e mi mancarono per un momento le certezze, ebbi paura di perderlo. Poi, razionalmente, mi convinsi che era solo una questione di tempo; ormai Claudia aspettava la richiesta di divorzio e Marco avrebbe capito. – “E’ intelligente come il papà”- pensai per darmi coraggio.

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Quando mi ero trasferita nella nuova casa avevo portato con me dalla vecchia abitazione, condivisa durante gli anni del matrimonio con Vincenzo, soltanto i vestiti e gli effetti personali. Lasciai mobili e suppellettili e chiusi casa, pensando che avrei potuto affittarla o venderla.

Dario dormiva spesso con me a casa nostra e già aveva portato molti vestiti. Nonostante ciò, non avevamo perso l’abitudine degli incontri al Cafè Moak: era bello ritrovarsi lì, al nostro tavolino, e sentire su di me la dolcezza del suo sguardo, la mia mano nella sua.

Era un mercoledì qualsiasi quando ci salutammo; Dario avrebbe passato la sera con Marco prima di rincasare e io avevo un volo prenotato per un convegno di due giorni a Barcellona. Dario mi aveva inviato numerosi messaggi sul cellulare “per essere sempre insieme”. Dopo quarantotto ore ero nuovamente a Napoli e fu bellissimo ritrovarsi a casa insieme: aveva apparecchiato elegantemente, il vino bianco già versato nei calici. Notai che aveva terminato di sistemare in casa ciò che era rimasto negli scatoloni, e l’aveva fatto in maniera molto accorta e con estremo gusto. Questi particolari rispecchiavano la sua personalità; amavo come aveva ordinato tutto, amavo lui.

-“Domani sera verrò per non andarmene più e inizieremo un nuovo capitolo insieme, noi due” mi disse. Mi abbracciò stringendomi forte, mi salutò augurandomi la buonanotte, e tornò da Marco.

La giornata seguente era iniziata col solito ginseng alla macchinetta delle bevande in clinica, prima di andare in reparto. Ero contenta, euforica. Quel giorno tanto desiderato era giunto. Io e Dario avevamo già condiviso tanti bei momenti insieme ma la consapevolezza che da quella sera saremmo stati finalmente conviventi a tutti gli effetti, era impagabile. Mi arrivò un messaggio: “Alle 20 sarò a casa. Amore, a

dopo”.

Finito il turno tornai a casa, feci una doccia e aspettai, versandomi da bere. Passate le venti da una mezz’oretta, iniziai a preoccuparmi perché Dario solitamente era puntuale. Contattato al cellulare non rispondeva, e dopo un po’ risultava spento. Mi preoccupai tantissimo. Non potevo chiamare a casa di Claudia e chiedere se fosse ancora lì con Marco, e non sapevo chi contattare. Alcune volte eravamo usciti con dei suoi amici, ma non eravamo intimi al punto da poter telefonare. Mi decisi a contattare il migliore amico di Dario, Daniele, presentatomi quasi all’inizio delle nostre frequentazioni al Moak. Daniele che sapeva di noi, non l’aveva visto né sentito, ma promise che mi avrebbe avvisato in caso di novità. Presi la macchina facendo il tragitto che Dario avrebbe dovuto fare da casa sua a casa nostra, ma nessuna traccia. Tornai a casa, ad aspettare.

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Verso le sei, albeggiava quando Daniele mi chiamò. Dario era stato ricoverato in ospedale. Lo aveva saputo da Claudia, avvisata durante  la notte dalla polizia che aveva trovato Dario a girovagare, senza riconoscere chi fosse e dove stesse andando. Attraverso i documenti erano risaliti alla sua identità e trovato il numero di casa.

Del resto, è ancora sua moglie” pensai ad alta voce mentre guidavo per raggiungere l’ospedale. Ero preoccupata, tesa; sapevo che avrei incontrato Claudia, ma non mi importava, avevo bisogno di vedere Dario e assicurarmi che stesse bene, capire cosa fosse successo e portarlo a casa con me.

In ospedale c’era Daniele ad attendermi all’ingresso. Mi disse che Dario stava iniziando lentamente a riprendersi, ma non era riuscito a giustificare dove stesse recandosi la scorsa notte. Daniele già sapeva che Dario si sarebbe trasferito a casa nostra, gliene aveva parlato qualche giorno prima. Stavano sottoponendo Dario a vari esami. Salii in camera sua per aspettare il responso dei medici, ma Claudia mi cacciò in malo modo, accusandomi in tutti i modi e ritenendomi responsabile della fine del suo matrimonio e dello stato attuale di salute del padre di suo figlio. Provai a dirle che la loro unione era già terminata, che l’amore di Dario verso di lei era finito prima della nostra conoscenza, ma continuò a urlare e inveire tanto da richiamare l’attenzione dell’infermiera che ci intimò di fare silenzio altrimenti ci avrebbe allontanato.

In quel momento arrivò Dario su una sedia a rotelle, spinta da un infermiere. Mi passò accanto, mi guardò, gli parlai; esitò e mi rispose chiedendomi chi fossi. Mi accasciai su una sedia del corridoio. Daniele prontamente mi sorresse, incoraggiandomi. Giunse il medico e ci disse che Dario stava fisicamente bene, ipotizzavano un disturbo da stress che lo aveva condotto all’attuale stato mentale. Quello stesso medico, prima del mio arrivo in ospedale, aveva raccolto l’anamnesi di Dario attraverso i dati e le informazioni fornite da Daniele. Sarebbe rimasto in ospedale per ulteriori accertamenti.

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Tornai a casa. Provavo un senso di smarrimento e di vuoto. Chiamai Viola e piangendo ripetevo: “Si è dimenticato di me, si è dimenticato di me.” Inquieta, ansiosa, preoccupata, vivevo un insieme  di emozioni negative e sapevo che con Dario c’era Claudia, dunque era inavvicinabile.

(Si stava manifestando il meccanismo di difesa della negazione, attuato dalla mente quando una realtà è percepita come insopportabile: se non si riconosce, non accade).

I  medici che lo avevano in cura propendevano per un disturbo post-traumatico, un suo modo di rispondere a un forte stress che aveva procurato una paralisi emozionale. e questo spiegava l’amnesia della sera in cui doveva trasferirsi a casa nostra.

Ero  preoccupata per lui perché aveva messo a repentaglio la propria e altrui incolumità e non era ancora fuori pericolo. qualche giorno dopo Daniele mi contattò per  Permettermi di vedere Dario in ospedale, mentre Claudia non c’era. Daniele e io parlammo col medico  che ci spiego o come Dario avesse rimosso i ricordi per difendersi, attraverso strategie di evitamento, una vera e propria capacità della psiche di fronteggiare gli insopportabilità di un evento.

Lo  specialista, conoscendo la situazione in cui Dario Era diviso e la scelta che aveva fatto, ci disse che probabilmente la sua mente non aveva retto al senso di colpa, al dolore e tristezza, alla paura di diventare distruttivo nei confronti di Marco. Il fattore predisponente, secondo il parere del medico,  era stato il recente cambiamento di vita che poteva aver percepito è vissuto come stressante, fino alla dissociazione. Il prossimo step sarebbe stato ricostruire l’esperienza traumatica attraverso un’adeguata psicoterapia, che consentisse di elaborare i contenuti dolorosi.

Mi sedetti accanto a lui. Riposava, neanche si accorse della mia presenza. Gli sfiorai la mano, quella mano che tante volte mi aveva accarezzato. Mi mancava tantissimo. Sentivo che non poteva più essere mio, che tutto ciò che avevamo progettato non si sarebbe mai avverato. Lo baciai mentre dormiva, poi uscii dalla stanza. Mi fermai a guardarlo dal vetro che affacciava sul corridoio. Era un addio. Daniele mi prese sottobraccio e mi accompagnò al parcheggio. Non sentivo più nulla, solo un enorme dolore. A casa, appoggiai la borsa sul divano. Quella casa appariva insopportabile senza Dario. Lo rivedevo mentre mi preparava la colazione, quando seduti bevevamo un drink o mentre ridevano e scherzavamo, parlando di noi e del futuro insieme. Indugiai sotto la doccia per lunghissimo tempo, come se l’acqua potesse avere un effetto curativo e lavare via la sofferenza di averlo perso. Tra qualche mese avrebbe recuperato la memoria, ma non speravo e non mi aspettavo che tornasse da me. Sapevo che avrebbe ritrovato in Claudia una solida figura di riferimento che gli sarebbe stata accanto. Lei lo aveva sempre amato e rivoluto con sé. E soprattutto Dario avrebbe riscoperto la serenità accanto a suo figlio e alla sua famiglia.

Alcune settimane dopo incontrai Daniele, passato in clinica per salutarmi. Mi ero gettata a capofitto nel lavoro e in numerosi progetti, partendo spesso per relazionare in convegni all’estero. Mi disse che Dario era stato dimesso, stava recuperando la memoria e a casa era assistito da Claudia e da un’infermiera che l’aiutava. Marco era stato felicissimo del ritorno a casa del papà. Dario chiese di me quando Daniele gli portò abiti e accessori portati a casa nostra. L’amico gli rispose che avevo ripreso la mia vita e lo fece riflettere che le nostre strade si erano divise. Avevo lasciato quella casa e i ricordi che racchiudeva, per ritrasferirmi nella precedente dimora, rimasta invenduta.

 

Mi alzai dal tavolo, finii il bicchiere di prosecco e pagai il conto. Mi guardai intorno, era certamente l’ultima volta che entravo al Moak. Avrei raccolto i cocci della mia vita, di lì sarei ripartita per andare avanti e riprendere a vivere e sognare.

 

Donatella Palazzo